All’inizio di ogni episodio, una voce fuori campo, accompagnata da una musichetta enfatica, pronuncia sempre la stessa frase: “Life: it’s literally all we have. But is it any good? I’m a reviewer, but I don’t review food, books, or movies. I review life itself”, quindi all’incirca “La vita è davvero tutto ciò che abbiamo. Ma è una cosa buona? Sono un critico, ma non recensisco piatti, libri o film. Recensisco la vita stessa”. La voce è quella di un conduttore televisivo, Forrest McNeil (interpretato dall’autore e comico Andy Daly), che intanto vediamo impegnato nelle brevi scene che punteggiano la sigla: filmati di azioni qualsiasi pronte a trasformarsi in equivoci, cadute rovinose o altri momenti di slapstick, ciascuna sintetizzata da un titolo in stampatello e a seguire dall’attribuzione di un certo numero di stellette. Comincia così, nel pilota e poi nelle altre ventuno puntate, suddivise in tre stagioni, Review (2014-2017), una serie comica statunitense in onda sulla rete cable Comedy Central. Un piccolo gioiello, inatteso e insospettabile, ma anche una di quelle serie che restano bloccate tra le pieghe di un’apparente abbondanza, di una peak television che tra reti e servizi digitali sembra sommergerci con un’offerta ricca e completa. La circolazione di prodotti è di certo cresciuta tantissimo, ma ancora non arriva tutto, neppure dagli Stati Uniti, e specialmente sul versante comedy molti titoli non passano la dogana: nonostante la presenza su Sky di una rete-gemella di Comedy Central o la ricchezza di scelta dell’on demand, in Italia Review è rimasta inedita.

D’altra parte si tratta di un oggetto molto strano, piuttosto difficile da catalogare e decodificare. È un adattamento statunitense di un’idea australiana, là intitolata Review with Myles Barlow. È una serie piccola, autoriale persino, con tutti gli episodi diretti da Jeffrey Blitz e sviluppati da un gruppo di scrittura coeso. Ed è una comedy travestita da programma televisivo, che mescola ingredienti variegati in modi originali, il mockumentary e la candid camera, la grammatica dei format di intrattenimento, l’idea di servizio (al) pubblico, la comicità basata sull’imbarazzo e sull’awkward, uno humour nero via via più evidente. Ogni episodio segue uno schema standard, costruendo il suo canovaccio a partire da elementi fissi.

Ciascuna puntata della serie coincide infatti con quella di un programma dedicato alla recensione di esperienze di vita, intitolato anch’esso Review. Dentro a uno studio spoglio, dalle tinte fredde e quasi interamente occupato dal green screen, il conduttore racconta la sua missione di critico e si sottopone a prove sempre nuove: piglio da intellettuale, desideroso di piacere, sbruffone ma insicuro, entusiasta per il compito che si trova a svolgere, McNeil dimostra un’enorme e indefessa dedizione alla causa, dando alle recensioni la priorità assoluta sul resto della vita. Accanto a lui, la co-conduttrice A.J. Gibbs (Megan Stevenson) gli fa da spalla e da contraltare, con reazioni spesso sopra le righe, scegliendo tra le richieste del pubblico, che arrivano tramite video, mail e tweet, le prove a cui il conduttore si sottoporrà.

Una volta assegnata la recensione, il protagonista attraversa lo studio, svela il backstage ed esce nel mondo, attraversando la soglia pervasa di luce bianca. Nei tre segmenti di cui si forma ogni puntata, si passa a servizi filmati, con la camera a mano che pedina il conduttore lungo i suoi esperimenti e lo segue negli spazi reali, nella vita familiare (con la moglie e il figlio) e in quella professionale (con un’assistente disincantata e apatica, un giovane stagista sfruttato, un produttore che lo pungola); il linguaggio diventa quello del reality, fatto di inquadrature sporche e piani di reazione “rubati”, con la voce fuori campo del conduttore che racconta cosa succede e commenta ex post una versione montata della storia. Al rientro in studio, il rituale dettato dal format si conclude con un rapido giudizio sull’esperienza e con l’attribuzione di alcune stelle.

Già il primo episodio spiega bene il meccanismo, costruito sui tre momenti della scelta, della prova e della recensione, che si ripetono tre volte dando forma a tre blocchi (e relativi intervalli pubblicitari). La prima esperienza da valutare è il furto, e allora vediamo Forrest coinvolto in un’escalation inesorabile che dal taccheggio al supermercato lo porta alla rapina in banca, con tanto di sparatoria, alla ricerca di sensazioni il più possibile sincere, di basi solide per modellare i giudizi. Lo stesso vale per la seconda prova, la recensione di una dipendenza, tra tabacco, alcol e infine cocaina. Nel terzo frammento, il conduttore è invitato a partecipare a un ballo studentesco (il famoso prom), test apparentemente meno complicato, ma che uscirà subito anch’esso dai binari per le conseguenze nefaste dei primi due blocchi: ogni recensione lascia infatti tracce sul conduttore, inneschi pronti a esplodere, e la comicità nasce sia dagli intrecci reciproci sia dall’insensibilità e indifferenza con cui guardiamo a quanto succede.

Basta scorrere i temi dei servizi delle altre puntate per capire che non andrà tutto bene: mangiare 15 pancake, registrare un sex tape, diventare razzista, o Batman, andare nello spazio, divorziare, licenziarsi, sposare una sconosciuta, guidare una setta, essere sepolto vivo, o colpito da un fulmine, e così via. Tra queste esperienze “estratte a sorte” ce ne sono di semplici, banali, che finiscono per ritorcersi contro Forrest; ci sono scelte difficili, che lo portano a sacrificare l’incolumità sua e altrui; e ce ne sono di stupide, o di inutili, che una volta inserite nel meccanismo o nella sequenza hanno però conseguenze rilevanti. E alla ripetizione dello schema e all’accumulo degli effetti si aggiungono via via alcune variazioni sul tema, con cambi in corsa e aggiunte al programma, regole infrante e possibilità di veto, dubbi e procrastinazioni, fino alla chiusura di ogni stagione, sempre affidata alla sola A.J.

Dietro a una forma volutamente banale, e solo apparentemente schematica, Review intreccia così almeno quattro livelli di lettura. C’è un piano meta-televisivo, di superficie e di profondità, che mette in scena tic e consuetudini della reality tv, fa parodia del suo linguaggio di plastica e delle sue retoriche della sfida e del percorso, e intanto indaga i confini di quanto si può/si vuole rappresentare: le regole del format, le ottuse richieste della gente comune, l’allargarsi del visibile e del narrabile, l’indulgere fintamente neutro su aspetti più scabrosi o violenti diventano tutti materiale comico. C’è poi un piano tematico, legato alle singole prove, che sovente offrono un commento caustico, involontario nella diegesi ma efficace per lo spettatore, a temi molto rilevanti dal punto di vista sociale, politico e culturale: come quando, per fare un esempio, l’invito a passare del tempo su una barca alla deriva porta Forrest al centro di un’enorme distesa di plastica nell’oceano; o con i commenti su armi e razzismo che appaiono persino più a fuoco ad anni di distanza, riguardando la serie alla luce della presidenza Trump.

Ancora, c’è il piano narrativo, con una complessità inattesa costruita attraverso le puntate, legando le prove e gli esiti tra loro: in tal modo assistiamo all’auto-distruzione del protagonista, che per rispettare gli standard che si è dato da solo (o gli sono stati imbeccati dal produttore) si trova a distruggere il legame con la moglie e il figlio, a bruciare la sua casa, ad abbandonare il lavoro, a interferire sgraziatamente con le vite di chi ha vicino, a uccidere, a finire in prigione, a credere a teorie cospirative; in una spirale da cui è impossibile uscire, il programma fagocita l’esistenza stessa di McNeil. E infine c’è il piano comico, che rende tollerabili, e al tempo stesso ancora più violenti ed efficaci, gli altri tre: per l’imbarazzo che proviamo guardando tali scene, per gli equivoci che si accumulano uno dopo l’altro, per la disapprovazione che ci pervade ogni volta che un nuovo confine è infranto, per la comprensione di quegli indizi registrati dalle telecamere del reality ma che sfuggono al protagonista, e forse soprattutto per la surrealtà che pervade i filmati e le riprese in studio, nel confronto tra l’inanità del gesto e la serietà con cui è affrontato, a scapito di tutto.

Review è la migliore serie comedy tra quelle passate inosservate sotto a ogni radar, e lo è anche perché spinge all’estremo l’assottigliarsi del confine tra critica e vita, perché confonde i piani dell’esperienza e del discorso, perché sfrutta l’espediente di un brutto programma televisivo per farci capire quanto il giudizio sia una dimensione pressoché inestricabile dalle nostre esistenze digitali contemporanee. Non si può sfuggire a questa logica, nemmeno qui, e allora tanto vale abbracciarla. Recensire un programma (almeno apparentemente) dedicato alle recensioni, fatto. Cinque stelle su cinque. Avanti il prossimo.

Riferimenti bibliografici
L. Barra, La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive, Carocci, Roma 2020.

A. Grasso, “Il mestiere del critico. Idee, strumenti, stili per giudicare la tv”, in Link. Idee per la televisione, Mono 2009.
J. Mittell, Genre and Television. From Cop Shows to Cartoons in American Culture, Routledge, London 2004.

Review. Regia: Jeffrey Blitz; sceneggiatura: Andy Daly, Charlie Siskel ; interpreti: Andy Daly, Megan Stevenson, Jessica St. Clair, Kaden Gibson; produzione: Abso Lutely Productions; distribuzione: Comedy Central; origine: USA; anno: 2014-2017.

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