Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), dismessi definitivamente nel febbraio 2017 per effetto della legge 81/2014, hanno rappresentato, per più di un secolo, un’istituzione unica all’interno dell’ordinamento giuridico italiano. Erede del manicomio criminale, nato in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, l’OPG ha funzionato a lungo come prodotto della «intersezione di due mondi sociali e istituzionali, quello carcerario e quello psichiatrico-manicomiale» (Quarta 2019, p. 30). Esso, infatti, è stato configurato come luogo di estrinsecazione di due funzioni differenti del potere, la funzione penale e quella curativa: sorvegliare, punire e curare, si potrebbe dire parafrasando Michel Foucault. Ed è proprio da una rilettura delle teorie e delle tesi di Foucault, e di quelle d’altri autori come Franco Basaglia ed Ervin Goffman, che prende le mosse l’etnografia di Quarta, resoconto di più di un anno di ricerca all’interno di un OPG. Etnografia atipica e avvincente perché, ponendosi in un rapporto mimetico rispetto al suo campo e al suo oggetto di studio, s’avvale di uno strumentario concettuale che attinge da percorsi teorici e disciplinari estremamente variegati. Resti tra noi, infatti, sembra costituirsi su almeno tre distinti livelli testuali.

Esso si presenta e si vuole, innanzitutto, come un’etnografia classica, calibrata e incentrata sulla vita all’interno delle mura della struttura in esame, per un periodo di circa 15 mesi. Le numerose considerazioni relative alla genealogia della sua comparsa storica e geografica, congiuntamente alla precisione con cui i primi capitoli contestualizzano e perimetrano l’ambiente e gli individui osservati, nonché le loro interazioni, la inscrivono a pieno titolo nel filone della ricerca antropologica. Tuttavia, le numerose riflessioni epistemologiche e metodologiche che intersecano continuamente la narrazione prospettano un secondo piano di lettura sul quale vengono gettate le basi per una revisione generale della teoria dell’istituzione. In tal senso, i frequenti rimandi ad Austin, Blanchot, De Martino e Foucault, solo per nominarne alcuni, servono a edificare un impianto argomentativo dalle fondamenta eterogenee eppure compatte.

È importante evidenziare, inoltre, le peculiarità dello stile adottato da Quarta, elemento sottolineato pure dalla prefazione di Fabio Dei (ivi, pp. 9-14). La narrazione, condotta interamente in prima persona, è ricca di flashbacks e salti cronologici, richiami letterari e figure retoriche, e riflette la convinzione metodologica che guida interamente il testo, secondo la quale è necessario restituire «ai soggetti la loro complessità, la loro multidimensionalità, la loro capacità di agire» (ivi, p. 250). Essa è appassionante nella misura in cui riesce a sostenere la posizione paradossale dell’antropologo, costantemente in bilico tra studio dell’altro e racconto di sé. Tale stile ci sembra dettato anche dall’originale interpretazione qui sostenuta dell’empatia, intesa quale «articolazione complessa del rapporto esistente tra presenza […] e conoscenza relazionale dell’altro» (ivi, p. 105), e di cui è costantemente richiamato il carattere processuale.

Ciò che riteniamo maggiormente significativo è la necessità, sostenuta dall’autore, di operare un rovesciamento prospettico al fine di cogliere teoricamente il modo in cui hanno funzionato concretamente gli OPG. La narrazione di Quarta, infatti, sembra animata principalmente dall’insoddisfazione nei confronti di quei contributi scientifici e quelle narrazioni volte a dipingere, sic et simpliciter, questo tipo di struttura come uno fra i tanti esempi di “istituzione totale”. Con questa espressione si fa qui riferimento alle analisi del già citato Goffman, secondo cui nel mondo contemporaneo sarebbero “totali” le istituzioni contrassegnate da un «impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno» (Goffman 1968, p. 34). Tali ricognizioni, denuncia Quarta, sarebbero incapaci di leggere appieno il senso dell’esperienza relazionale all’interno dell’OPG poiché fondate su una «rappresentazione monolitica e unidimensionale […] costruita attraverso un lessico che ammicca più alla semantica della morale che a quella della descrizione scientifica» (Quarta 2019, p. 82).

Contrariamente a queste immagini stereotipate e granitiche, incapaci di cogliere le dinamiche sociali e relazionali, possibili o effettive, sviluppatesi all’interno della struttura, la vita che l’autore osserva tra le pieghe dei suoi giorni ivi trascorsi non si configura, dunque, come «una progressiva desocializzazione, disculturazione, fino al raggiungimento di uno stato di non-persona» (ivi, p. 31). L’esperienza di campo rivela, piuttosto, «uno spazio in cui il fermento sociale, quell’incessante lavorio culturale quotidiano attraverso cui i soggetti – quale che sia il loro ruolo – abitano, addomesticano, plasmano e danno vita all’istituzione» (ivi, p. 82).

Si badi, tuttavia: in queste pagine l’autore non dimentica e riscatta mai le violenze e le crudeltà che pure ne hanno segnato la storia in numerose occasioni. Il suo racconto intende, invece, restituire un’immagine più fedele e concreta, più comprensibile e “viva” dei mondi sociali cui l’OPG ha fatto da teatro. Infatti, l’istituzione non è, come vogliono certe sue rappresentazioni molto in voga, una struttura che preesiste al soggetto, dove quest’ultimo si limita a entrare e trascorrervi una porzione della sua esistenza subendone passivamente le dinamiche; essa è, al contrario, la risultante della microfisica che l’attraversa e di cui si compone, microfisica nella quale i soggetti sono a tutti gli effetti attori e centri di resistenza.

Tra i gesti e i fenomeni che agli occhi dell’antropologo testimoniano dell’incessante brulichio di vita all’interno dell’OPG, appare come fondamentale la possibilità e la capacità, da parte dei soggetti che la abitano a vario titolo (è importante sottolinearlo poiché un merito ascrivibile all’antropologo risiede nell’aver considerato attentamente tutte le componenti sociali in gioco – pazienti, guardie carcerarie, medici, infermieri, e osservatore stesso), di negoziare la propria identità e il proprio ruolo grazie a pratiche relazionali complesse. Prodotto e strumento principale di tale negoziazione è individuato dall’autore nel «capitale informazionale» (ivi, pp. 112-181), espressione coniata con esplicita ispirazione alla terminologia di Bourdieu (2001), e traducibile nella circolazione d’informazioni, sugli altri o sul funzionamento dell’istituzione, cui ognuno dei soggetti prende parte. Questo capitale disegna così «un’economia politica del vantaggio personale», basata sull’accumulazione d’informazioni e, al tempo stesso, «un’economia relazionale della fiducia e del riconoscimento reciproco» (ivi, p. 184), incentrata sugli scambi e sugli investimenti d’informazioni.

In conclusione, ciò che il libro di Quarta ci restituisce sono i sedimenti di un’istituzione eccezionale, complessa e articolata, che ha attraversato la storia d’Italia per un periodo considerevolmente lungo, nel momento del suo tramonto. Conseguentemente, è proprio il concetto di resto, evocato sin dal titolo, a rendere globalmente il senso di questa ricerca e a proporsi come il nucleo pulsante da cui è animata.

Innanzitutto, un resto è questo stesso testo, poiché ogni scrittura – sostiene l’autore – non può che configurarsi come «riduzione a un ordine logico e narrativo di tutto ciò che, invece, nell’incontro etnografico si presenta come eccedenza, come non trascrivibilità» (ivi, p. 35). A fortiori esso è il “resto” di un vissuto tanto esperienziale quanto etnografico non più ripetibile, è concrezione e sedimento, è quel che “resta” dell’OPG. Ma “resti tra noi” è anche l’implicito sotteso a ogni conversazione di cui l’antropologo è testimone o partecipe. Questa frase, sottolinea più volte Quarta, è la cornice retorica e la parola d’ordine che accompagna la maggior parte delle contrattazioni e delle interazioni sociali all’interno dell’istituzione, è la formula magica di cui si serve la circolazione del capitale informazionale. E infine, scorgiamo nel “resto” il concetto più adatto a esprimere quanto accomuna le disparate storie delle esistenze concrete che compongono la materia palpitante di questa etnografia. Le anime che percorrono i corridoi della struttura si stagliano, nel corso della narrazione, come ombre alle prese con una vita negoziata, resto incerto di una vita piena, cui talvolta ritornano con la narrazione, talaltra anelano nella speranza di un futuro.

Il racconto di Quarta, il raccolto di questi “resti”, appare tanto più prezioso in un momento storico interessato da importanti trasformazioni del mondo istituzionale, esplicabili in parte con la progressiva erosione cui è soggetto, e in parte con la sfiducia crescente generata da alcune sue rappresentazioni nell’epoca contemporanea. D’altronde, come ha sostenuto Gilles Deleuze, se c’è un elemento che può distinguere l’uomo dall’animale, questo è da ricercarsi innanzitutto nell’incessante e necessaria creazione di istituzioni da parte del primo (Deleuze 2002). Così, comprendere la possibile esperienza antropologica dischiusa dall’istituzione OPG – e collegarla, partendo da qui, alle motivazioni che ne hanno sancito storicamente e geograficamente la sua estinzione (a favore delle REMS, Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) – può aiutare a indagare, in controluce, le modalità secondo cui l’essere umano non solo crea, inventa e modifica, ma anche rinnova, cancella e distrugge continuamente le proprie istituzioni.

Riferimenti bibliografici
P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 2001.
G. Deleuze, Istinti e istituzioni, Mimesis, Milano 2002.
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita nella prigione, Einaudi, Torino 1976.
E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: la condizione sociale dei malati di mente e di altri internati, Einaudi, Torino 1968.
L. Quarta, Resti tra noi. Etnografia di un manicomio criminale, Meltemi, Roma 2019.

*Le immagini presenti nell’articolo e in copertina sono fotografie di Silvio Iammarino.

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