Il nativo americano, per certi versi e per molti, ancora oggi, si presenta come una figura mitologica sulla quale si ergono una serie di stereotipi e falsità storiche che necessitano di essere corrette. Un mito, dunque, piuttosto che un popolo. Un’avventura piuttosto che storia. Uno spettro senza anima e spirito che si agita nell’oscurità della dimenticanza. Un fossile culturale che ci lascia in eredità resti di un passato esposto all’uso e abuso di una mentalità colonizzatrice prima e distruttrice dopo.

Una storia manipolata e modellata da ciò che volutamente si è voluto tralasciare, perché spesso la storia del nativo americano è raccontata dai non nativi. Le narrazioni sui nativi americani nel corso del tempo sono passate attraverso l’inesorabile fluire della storia autentica, quella che ha attraversato il loro vissuto con violenza e discriminazione come l’istituzione delle riserve e delle Boarding Schools, i collegi eretti sotto il motto kill the indian and save the man; e quello agitato e profondo dell’amnesia, della cancellazione e della mortificazione della memoria. Il nativo americano è un soggetto altro a cui le società moderne faticano ad accostarsi.

Nell’immaginario collettivo il nativo americano è un’immagine immobile che non aderisce alla realtà. Un’immagine forse romantica, contraddistinta da esonimi occidentalizzati, di un popolo che veste con pelle di daino, di guerrieri che si tingono il viso per andare in guerra o per cacciare il bisonte, di un popolo che vive nei villaggi all’ombra di totem e tepee. Ma oggi il nativo americano è quell’uomo che vive nei recinti delle riserve e sogna l’altra America, quella delle occasioni, tra le pareti di cartone e lamiera delle baracche, affidando la sua anima all’alcol vendutogli dall’uomo bianco ai confini di quella terra rubata.

È quello che sfida giornalmente i fantasmi del trauma storico-culturale intergenerazionale perché la cultura del bianco gli ha negato la verità e per questo reso invisibile e inascoltato al/dal mondo. Oggi, quel nativo continua ad essere uno dei nessuno: «Quelli che non figurano nella storia universale, ma nella cronaca nera locale» (Galeano, 1989). Oggi, l’indiano d’America non è più il giovane bello e fiero come Vento nei capelli di Balla coi lupi (1990), piuttosto è Uncas, il Mohicano di James Fenimore Cooper (1991), l’ultimo della sua tribù che muore giovane e invano portandosi dietro ciò che rimane della sua cultura e della sua connessione con l’universo.

Oggi, l’indiano è quello delle riserve. È Willie Jack, Elora Danan, Bear e Cheese: i giovani teppistelli di Reservation Dogs, espressione drammatica del limbo culturale generato dalla politica di integrazione che mostra per la prima volta il vero volto della riserva. Reservation Dogs è una serie tv americana, dannatamente vera e ironicamente tagliente, che con un approccio nuovo spazza via con un colpo di spugna il whitewashing che ha sempre primeggiato nelle produzioni cinematografiche hollywoodiane. Una serie che si presenta quasi nella sua totalità come espressamente indigena, perché gli scrittori, i registi e il cast sono rappresentati per la maggior parte da nativi.

I protagonisti sono quattro adolescenti che vivono nel contesto complesso e disgraziato di una riserva in Oklahoma e che vengono chiamati Reservation Dogs, i cani della riserva, proprio per rimarcare in maniera dispregiativa il loro essere inutili, il loro essere nessuno. Nel primo episodio vengono immediatamente rappresentati come una piccola gang di quartiere, e la loro microcriminalità viene giustificata da uno scopo che ne ridimensiona l’aspetto delinquenziale: racimolare dei soldi perché vogliono lasciare la riserva e trasferirsi in California. Perché? Perché la riserva per loro è un luogo di morte, è un luogo di dolore che non lascia speranza ai ragazzi, è un limbo in cui non ci si sente né totalmente indiani, né totalmente americani.

La California è un luogo di speranza e di ricongiunzione con la libertà che essi non hanno mai potuto vivere fino in fondo. Un luogo di riconciliazione, di perdono e di accettazione delle fragilità umane e della morte. Il dramma personale è un dramma collettivo, la memoria di un singolo diventa memoria collettiva: la morte di Daniel, un amico dei quattro giovani suicidatosi a 16 anni, l’anno prima in cui viene raccontata la storia dei Reservation Dogs. La riserva odierna diventa il nuovo campo di battaglia, dove il male proviene dall’interno, dove i tempi sono moderni e i problemi sono rez problems, cioè problemi della riserva come a rivendicarne la specificità e la diversità rispetto al mondo fuori dai suoi confini.

È lontano il tempo in cui l’occhio della macchina da presa si posava sulle grandi praterie e catturava lo scontro tra giacche blu e pellerossa a cavallo. La riserva è area marginale privata di ogni occasione di riscatto e di sviluppo. Un luogo-non luogo depredato dall’identità e dalla memoria storica che si riaccende, nonostante tutto, per riconquistare diritti e ricostruire il senso della nazione nativa. La dimensione attraverso la quale vengono misurati i disagi è quella adolescenziale, ma non per questo si sminuisce il malessere di una intera comunità.

Le storie narrate sono storie autentiche, storie di una comunità mortificata dagli effetti del trauma: alti tassi di suicidi, povertà, violenza domestica, abusi, sistema sanitario sofferente, alcolismo. Il dolore intimo di ognuno dei quattro ragazzi è un unico dolore, ma che non viene condiviso e che li divide, li disconnette. Bisogna attendere il finale della seconda stagione per affrontarlo. L’oblio della riserva si è preso la vita di Daniel e con essa la capacità di un gruppo di amici di aggrapparsi ai legami solidi.

La particolarità di questa serie è che il viaggio verso la California è un viaggio interiore che ogni protagonista compie in maniera diversa e del tutto personale, è una sorta di memory work che li porta come singoli, ma anche come membri di una collettività, a rielaborare un passato traumatico e a costruire traiettorie future. Ci si perde e ci si ritrova durante i 18 episodi e il sentiero che si apre davanti al loro cammino è lastricato di saggezza indiana.

L’aspetto più interessante è che la saggezza continua a presentarsi e a tramandarsi attraverso due particolari figure: gli anziani e le zie, custodi della cultura, veri narratori di storie autentiche, e non importa se il linguaggio è mutato, se è colorito da espressioni volgari. È un linguaggio che i giovani rez dogs accolgono, comprendono e agiscono. La scelta vincente della serie è riportare in un tempo presente l’ancestrale e stereotipata idea del nativo americano che rassicura il telespettatore bianco, sotto forma di più spiriti guida, alcuni insoliti, surreali come William Knifeman, guerriero Lakota morto durante la battaglia di Little Big Horn, un personaggio sopra le righe che come afferma lui stesso è “un viaggiatore nel mondo degli spiriti alla ricerca di anime perse”.

Lui appare inizialmente a Bear e lo guida alla riscoperta di sé stesso, alla necessità di essere un guerriero con dignità, pronto a combattere e a morire per il suo popolo e la sua terra. I giovani della riserva hanno ereditato un duro passato, ma spetta loro avviare il processo di ricostruzione della loro cultura, a rendere emergente la memoria collettiva e a «collegare la coscienza del presente a quella del passato». (Schwartz 2018). Sui quattro ragazzi grava una crisi del futuro che può essere affrontata a partire da una lotta per la memoria, «perché le lotte per la memoria sono lotte per il futuro» (Jedlowski 2018). I cani della riserva hanno intrapreso il red path per divenire guerrieri con dignità.

Riferimenti bibliografici
J. Fenimore Cooper, L’Ultimo dei Mohicani, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1991.
E. Galeano, Libro degli abbracci, Sperling & Kupfer, Milano 1989.
P. Jedlowski, Memorie del futuro, in A.L. Tota, L. Lucchetti e T. Hagen, a cura di, Sociologie della memoria. Verso un’ecologia del passato, Carocci, Roma 2018.
B. Schwartz, Ripensare il concetto di memoria collettiva, in A.L. Tota, L. Lucchetti e T. Hagen, a cura di, Sociologie della memoria. Verso un’ecologia del passato, Carocci, Roma 2018.

Reservation Dogs; regia: Sterlin Harjo, Sydney Freeland; interpreti: Devery Jacobs, Lane Factor, Paulina Alexis; produzione: FX Productions, Piki Films, Film Rites; distribuzione: Star (Disney +); paese d’origine: Stati Uniti d’America; anno: 2021; durata: 30’.

Tags     America, Harjo, serie
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