“Saber” – nome d’arte del pornoattore interpretato da Simon Rex – ha l’«Hollywood vibe» e, nonostante l’ego smisurato, sono le persone attorno a lui a riconoscerglielo quando torna da Los Angeles nella sua piccola città natale in Texas. Sul significato del termine i più illustri dizionari d’inglese concordano con il gergo popolare: il vibe è un’aura, uno stato d’animo, che trasmette sensazioni ed emozioni all’esterno aggirando l’esplicitezza del linguaggio verbale. In Red Rocket il conflitto di classe, condensato nella tipica contrapposizione fra metropoli e mondo rurale, si trasforma in un moto convettivo capace di agitare gli antichi ideali romantici del sogno americano mediante una spietata drammaturgia dell’apparenza sociale.
Ormai sul viale del tramonto, Mikey tenta di riconciliarsi con l’ex moglie, disillusa donna del sud residente nei ghetti di periferia insieme alla madre malata. Proprio quando i due sembrano mettere una pietra sopra i fantasmi del loro passato, in un negozio di ciambelle fa la conoscenza di Strawberry, giovane lolita per la quale perde la testa. L’idea di coinvolgerla nel business d’intrattenimento per adulti riaccende in lui la speranza di tornare alla ribalta e decide, così, di abbandonare tutto di nuovo; ma prima di ripartire per la California è costretto a fare i conti con la comunità in cui è cresciuto, più unita e solidale del previsto contro chi mina l’integrità del gruppo.
L’America come terra delle opportunità assume i connotati più fumosi di un empireo vibrazionale, in cui il sogno dei padri fondatori si disperde fino a diventare vibe americano. A differenza della consistenza aurorale di un progetto politico fondato sulla mobilità delle classi, quest’ultimo film di Baker testimonia un cambio di paradigma: l’ascensore sociale – che potrebbe essere rinominato, non a torto e meno anacronisticamente, social – non ha un luogo di destinazione – se non, appunto, la dimensione caliginosa e fittizia di un successo transitorio – poiché l’aspettativa verso le possibilità del futuro vince sull’effettiva transizione reale. La scena finale, giocata sull’ambiguità ontologica fra piano della realtà e allucinazione psichica, è una summa di questo slittamento: quando Mikey va a prendere Strawberry per scappare a Los Angeles la trova alla porta vestita solo di un bikini rosso fragola mentre tenta di ammaliarlo con atteggiamenti tanto seducenti e provocatori quanto stereotipici. Mai come prima d’ora la natura onirica della retorica a stelle e strisce è stata così fedele a se stessa nell’inseguire l’ideale di un «sognare per sognare» e, come è stato notato (Isenberg 2016), questa vuota autoreferenzialità è uno degli effetti collaterali delle forti disuguaglianze esistenti, già da tempo, nel tessuto sociale americano.
Quanto sia facile sovrastimare il grado d’aderenza alla società di queste impostazioni narrative è attestato dalle numerose leggende che orbitano intorno ai prodotti cinematografici ogniqualvolta si tenti di distillare una qualche forma di realismo. Insieme a Tangerine (2015) e The Florida project (2017), Red Rocket prosegue l’incessante lavoro archeologico di esumazione dell’America profonda, di quel deep south costellato di baracche e roulotte malandate, carcasse di industrie in crisi e situazioni familiari compromesse (ivi). Tuttavia, sebbene si siano rincorse l’un l’altra le ambizioni nello scoprire quale attore sia stato reclutato dalla strada o quale scena sia stata improvvisata – e questi sono, senza dubbio, elementi fondativi dell’architettura registica di Baker –, la pretesa di verità del film è coperta da una sorta di velo di Maya, in consonanza stilistica con i titoli precedenti.
Sono gli edifici pomposi e colorati, le atmosfere da cartolina, i cliché “teatrali”, a generare la peculiare dialettica dei contrari che ingloba i residui documentaristici dentro le sovrastrutture dell’apparenza. Per ogni accenno di violenza domestica, di ingiustizia sociale o di tossicodipendenza, la mano autoriale stende una bella passata di vernice fucsia, turchese o gialla e, così, ogni problema viene anestetizzato riducendone la carica gravosa. Non a caso, l’oggetto del desiderio inconscio in The Florida Project – il parco di Disneyland – si affianca a quello di Red Rocket – Hollywood – nel loro comune manifestarsi come terre promesse del divertimento; un concetto molto simile a quello spazio di spettacolarizzazione e mistificazione della realtà sottratto dalla macchina neocapitalista all’alienazione religiosa nelle teorie di Guy Debord.
Se c’è un merito da riconoscere a progetti indipendenti di questo tipo è quello di esser riusciti a portare, per dirla con Sarah Attfield, un’efficace rappresentazione della classe lavoratrice sullo schermo, e quindi aver favorito una torsione dello sguardo verso aspetti celati dalle dinamiche di potere (Attfield 2020). Tale merito passa anche dagli stilemi che il panorama statunitense dell’indie cinema ha permesso di normalizzare, senza la rinuncia alle estetizzazioni classiche dell’immagine: in primis un margine minimo di improvvisazione delle scene. E qui, anche sotto l’ammissione dello stesso Baker, è tangibile l’influenza lontana di Cassavetes nell’esecuzione estensiva di prove recitate prima degli shooting, così da lasciare maggiore libertà sul set una volta consolidate le fondamenta registiche e andare a caccia della serendipità – cioè dell’unicità degli eventi imprevisti. Red Rocket – adottando anch’esso la variante dello scriptment bakeriano: una forma ibrida e informale di sceneggiatura mista a trattamento (Murphy 2019) – aspira all’autenticità di una messa in scena scevra da regole stringenti, catalizzando l’espressione delle rimanenti caratteristiche filmiche: l’impiego di first time actors, attori amatoriali reclutati nelle location stesse, e tecniche di ripresa non convenzionali, come il “furto” veloce di immagini nei luoghi in cui non si sono ottenuti i permessi per girare.
Seppur sprovvista di un movimento vero e proprio alle spalle, la vicenda di “Saber” – uomo senza responsabilità – è manifesto di una popolazione che urge di essere raccontata. Annidati nelle sottotrame, emergono tutta una serie di riferimenti storici densi di significato: gli omicidi irrisolti negli acquitrini fuori città conosciuti alla cronaca come Texas Killing Fields, l’industrializzazione selvaggia (quasi in ogni inquadratura si intravedono le raffinerie di petrolio sullo sfondo), il commercio di schiavi africani sulle coste texane da parte di Jean Lafitte. Tutti elementi che vengono puntualmente ignorati o banalizzati dal protagonista quando l’universo sociale in cui è immerso tenta di riportarlo sulla terra, a prescindere che facciano parte del suo passato genealogico di uomo del sud. D’altronde, fra scegliere di affrontare i compromessi della realtà o gettarsi nelle mani diafane del vibe americano, la strada maestra del sogno sembra – in questo caso – la via meno impegnativa da percorrere, anche qualora si riveli, in ultima istanza, soltanto uno stretto ed impervio sentiero.
Riferimenti bibliografici
S. Attfield, Class on screen, Palgrave Macmillan, Cham 2020.
N. Isenberg, White trash, Viking, New York 2016.
J.J. Murphy, Rewriting indie cinema, Columbia University Press, New York 2019.
Red Rocket. Regia: Sean Baker; sceneggiatura: Sean Baker, Chris Bergoch; fotografia: Drew Daniels; montaggio: Sean Baker; interpreti: Simon Rex, Suzanna Son, Bree Elrod, Ethan Darbone; produzione: CRE Film; distribuzione: Universal Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 128′; anno: 2021.