Facendo una ricerca sommaria tra i titoli di genere storico disponibili sulle principali piattaforme di streaming, su Netflix compaiono 42 titoli; su Amazon Video Prime se ne trovano 16; su Rai Play ne risultano addirittura 82. Questi semplici dati non individuano certo un fenomeno recente: anche solo limitando il campo alla fiction italiana, studi sullo scorso decennio rilevavano una maggiore percentuale di narrazioni storiche rispetto a quelle contemporanee.

La produzione e la distribuzione costante di serie televisive ambientate nel passato (biografiche, storiche, docu-drama o period drama) riattiva un dibattito sulla narrazione storica che risale almeno ad Aristotele, quando il filosofo mette a confronto il lavoro dello storico con quello del drammaturgo. Come ha ben sintetizzato Umberto Eco, «la storia è per Aristotele come la fotografia panoramica di un campo di eventi», mentre «la poesia consiste nell’isolare in esso una esperienza coerente, un rapporto genetico di fatti, e infine un ordinare i fatti secondo una prospettiva di valore». La questione della realtà, in questa distinzione, è tutt’altro che secondaria, al punto che proprio Aristotele precisa ulteriormente la distinzione tra lo storico e il drammaturgo attribuendo al primo il dominio degli eventi reali (i fatti) e al secondo quello degli eventi possibili. Il genere storico tende costitutivamente a lavorare sugli uni e sugli altri; a muoversi in un campo di eventi reali con l’intenzione di costruire al suo interno un percorso coerente, una catena causale di eventi; il lavoro drammaturgico necessita infatti di azioni capaci di produrre effetti. Come ha scritto Hilary Mantel, autrice di un monumentale romanzo storico sulla Rivoluzione Francese, «lo scrittore deve scegliere un viso tra la folla, individuare a chi appartiene e seguirlo fino a casa».

Nel costruire tale catena causale, il lavoro della narrazione estende il campo dei fatti, che diventa un campo dei reali possibili: tale estensione ontologica si rileva nei differenti formati del romanzo, del film, della serie televisiva. Il realismo storiografico, in tal senso si può anzitutto pensare dunque dal grado zero dell’invenzione, nel caso in cui si abbia a che fare esclusivamente con personaggi reali e non ci siano né situazioni né dialoghi introdotti dall’autore (il documentario storico funziona in questo modo), fino al massimo grado dell’invenzione narrativa, ovvero la rappresentazione di un periodo storico interamente inventato (Game of Thrones). Nei gradi intermedi troviamo la maggior parte dei prodotti che ci interessano in questa sede, le serie storiche propriamente dette, opere caratterizzate da un peculiare equilibrio delle finalità patemiche ed epistemiche.

Il quadro teorico è quello della documentalità (Ferraris 2009), ossia l’insieme delle condizioni per cui riconosciamo un oggetto come documento. L’opera audiovisiva in generale è un particolare tipo di documento (afferente alla classe delle opere d’arte) che provoca necessariamente emozioni e accidentalmente conoscenza; l’opera audiovisiva storica è quella che promette (a parità di emozioni) la maggiore offerta di conoscenza. Già a proposito di Downton Abbey (2010-2015), Aldo Grasso e Cecilia Penati sottolineano che la fortuna della serie si doveva ad elementi quali la «curiosità e la conoscenza della vecchia Inghilterra». D’altra parte la domanda di conoscenza indirizzata verso le opere audiovisive di finzione sembra essere crescente, come evidenziato in studi dell’ultimo decennio (Grey, Bell 2013; Tagliani 2019) che assegnano al film biografico e alla serialità televisiva di genere storico un notevole impatto quantitativo.

Nel caso delle serie, se si pensa a titoli come Mad Men (2007-2015) o Stranger Things (2016-in corso), si può precisare lo schema di Ferraris come segue: la serie storica produce necessariamente nostalgia e accidentalmente conoscenza, sia attraverso la grande mole di informazioni storiografiche che lo spettatore assorbe, sia mediante le scenografie d’epoca che lo spettatore può percorrere e abitare, in virtù della vasta quantità di tempo a disposizione delle narrazioni seriali. Questa specifica assiologia (la “prospettiva di valore”) si ottiene anche per effetto di un intervento finzionalizzante sul dominio del reale, che non si limita a selezionare gli eventi e a collocarli in una catena causale, ma integra la realtà (non narrativa in sé) con fatti e personaggi di invenzione, tanto che non pochi studi storiografici vengono dedicati all’analisi delle “licenze narrative” delle serie storiche: uno dei più dettagliati si intitola History, Fiction, and The Tudors: Sex, Politics, Power, and Artistic License in the Showtime Television Series (William Robinson, 2016).

Prendiamo a titolo di esempio due serie storiche di recente produzione, Versailles (2015-2018) e The Last Kingdom (2015-in corso). Versailles è incentrata sulla corte di Luigi XIV riunita forzosamente nella residenza di caccia della famiglia reale, trasformata negli anni in una spettacolare macchina del potere; The Last Kingdom è basata sulla storia dei re sassoni dal IX secolo fino alla nascita del Regno d’Inghilterra.

La forza di queste serie storiche con personaggi di finzione sta nel fatto che mentre il gruppo di personaggi reali si muove prevedibilmente (nel 1672 Luigi XIV non può non dichiarare guerra alle Province Unite, il pagano Guthrum non può non convertirsi al cristianesimo nell’878), le figure finzionali fanno un loro percorso che non è noto in partenza, e che sollecita la domanda drammaturgica. Ma le figure finzionali del period drama, tuttavia, hanno anche dei vincoli rispetto alla storia reale, dunque per lo spettatore la curiosità drammaturgica si combina con una specifica attività di ipotesi, a sua volta influenzata dalla verità storica. In sintesi, questo tipo di narrazione attiva domande drammaturgiche molto complesse, perché non ci si chiede soltanto cosa accadrà ai personaggi di finzione, ma anche cosa accadrà ad essi intesi come variabili parzialmente dipendenti in un dominio storiografico noto allo spettatore.

Prendiamo Fabien Marchal, il responsabile della sicurezza personale di Luigi XIV: questa figura umbratile, che vive per lo più nelle segrete del palazzo, non è esistita storicamente ma possiede in Versailles un proprio arco di trasformazione relazionale che influenza fortemente il corso degli eventi. A volte è una pedina, altre volte è un burattinaio, a volte è il braccio armato del Re, altre volte il sovrano lo allontana da sé. Porta alla corte di Luigi XIV la spietatezza della forza di legge e alla serie televisiva Versailles il senso dell’inemendabilità del reale: le azioni, per Marchal, hanno conseguenze che nessun trucco di corte, nessun raggiro verbale, possono procrastinare o evitare.

Ancora più dominante, drammaturgicamente, il profilo di Uhtred di Bebbanburg in The Last Kingdom: figlio di un sassone ma cresciuto dagli invasori danesi, Uhtred è l’uomo nuovo su cui si costruirà l’identità del regno inglese, ma è un personaggio di finzione. Affianca il Re Alfredo e ne è lo strumento d’azione, ma spesso ne distacca fieramente, mettendo in tensione la ragione individuale e la ragione di uno Stato nascente. Sia Fabien che Uhtred possiedono una caratteristica preziosa per la narrazione: sono personaggi imprevedibili, instabili, che intrattengono relazioni spesso conflittuali con quello che possiamo definire il potere storico o il potere reale.

C’è da stabilire a questo punto se quella costruita dalla serie televisiva storica sia una realtà aumentata dalla finzione o una finzione diminuita dal reale. Da una parte, si tratta di narrazioni che hanno un rapporto non pretestuoso con la realtà storica, come spiega il romanziere Bernard Cronwell a cui si deve il testo di partenza di The Last Kindgom: «È tutto radicato nella realtà. E anche se Uhtred non esisteva come l’ho scritto, c’è sempre la grande Storia (di Alfred e di suo figlio Athelstan) sullo sfondo». Dall’altra parliamo di «expansive diegetic worlds», come li definisce Matt Hills, dunque a risultare estesa o espansa è la diegesi, ossia il rapporto genetico di fatti, il campo narrativo e non il campo del reale. Ciò che ci interessa di questi mondi sono soprattutto le storie dei personaggi che vi hanno luogo, storie che si possono definire realiste nei limiti di quello che Roberto De Gaetano chiama il realismo dell’azione, un principio di costruzione della realtà narrativa basato su rapporti di stretta causalità.

La struttura seriale introduce la possibilità di accogliere più eventi rispetto al film, ma senza mai andare a coincidere integralmente con campo degli eventi reali (la narrazione storica vera e propria). Il realismo dell’azione non consiste solo nel rapporto tra situazione e azione, ma è responsabile della struttura generale dell’opera seriale, almeno nei casi analizzati. In tal senso, Versailles è una serie che si articola programmaticamente in tre stagioni, con una chiusura forte, come confermano le testimonianze dei realizzatori. Così il produttore esecutivo di Canal+, Fabrice de la Patelliere: «Sin dall’inizio, il produttore di Claude Chelli ci aveva parlato di tre stagioni. La serie aveva lo scopo di documentare la formazione e l’ascesa al potere di Luigi XIV e mostrare come ha costruito Versailles per rinchiudere i nobili, affermando il suo potere assoluto. Alla fine della terza stagione, Luigi XIV ha raggiunto il potere assoluto, ha 46 o 47 anni, quindi abbiamo raggiunto la conclusione dell’arco narrativo che avevamo immaginato per questa serie». Aggiunge l’attore Alexander Vlahos (Filippo I di Borbone-Orléans): «Siamo giunti all’epilogo nel modo migliore. Non siamo stati cancellati, Simon Mirren e David Wolstencroft, i creatori della serie, hanno avuto una visione all’inizio, poi una parte centrale e una fine». Si torna immancabilmente ad Aristotele e al suo sistema per ordinare i fatti, ossia la Poetica.

Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.
U. Eco, Sulla televisione. Scritti 1956-2015, La Nave di Teseo, Milano 2019.
M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009.
A. Grasso, C. Penati, La nuova fabbrica dei sogni. Miti e riti delle serie tv americane, Il Saggiatore, Milano 2016.
A. Grey, E. Bell, History on Television, Routledge, New York 2013.
G. Tagliani, Biografie della nazione. Vita, storia, politica nel biopic italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.

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