Tre ragazze nude stese a terra. Poggiate su un fianco. Lo scorcio attraverso cui vediamo i tre corpi, così come la posizione di questi, varia leggermente. Riverse su un lato, o raccolte in posizione fetale, o con le mani dietro la nuca, le tre ragazze (ma un’unica modella) espongono nella magrezza dei corpi e nella profondità del riposo il senso di una spossatezza assoluta. La nudità abbandonata a terra, che compone l’unità di un movimento rotatorio, come quello delle lancette di un orologio, è accompagnata da resti: due bottiglie di champagne con due coppe sul pavimento, due carte che mostrano simbolicamente il numero tre. In un angolo, su un cuscino rosso, un cappello con dei guanti bianchi. Questi resti sono composti, la pulsione di cui sono tracce è trascesa e simbolizzata.
Siamo di fronte al quadro più noto del “Realismo magico” (la bella mostra di Palazzo Reale a Milano, a cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli), Dopo l’orgia di Cagnaccio di San Pietro. Il quadro è del 1928 e viene rifiutato alla Biennale di Venezia non solo per generiche ragioni di ordine morale, ma perché sul gemello di un polsino abbandonato sul tappeto c’è rappresentato un fascio littorio. E il regime non tollera. Il “Realismo magico” è un movimento che non ha prodotto alcun manifesto, e che nasce e si sviluppa dopo la Grande guerra. E che della crisi postbellica e del totalitarismo fascista raccoglie tutti gli umori.
Il movimento è di fatto l’invenzione di una formula critica ossimorica, nata dapprima in Germania da Franz Roh nel 1925, e poi ripresa da Bontempelli e De Chirico. Se per Roh l’analogia è con il movimento coevo della “Nuova Oggettività” tedesca, e dove «con la parola “magico” […] si vorrebbe indicare che il mistero non si inserisce nel mondo rappresentato, ma si nasconde in esso» (Belli e Terraroli 2021, p.33), per Bontempelli, così come per De Chirico, l’analogia con la pittura del XV secolo risulta decisiva. Per il primo, il pittore del Quattrocento «più sentivasi fedele e geloso della Natura, meglio gli riusciva isolarla avviluppandola d’un pensiero fisso alla sopranatura» (ivi, p.19); e il secondo nel 1921 scriveva in “Valori plastici” che nel Quattrocento «il faticoso lavoro compiuto a traverso tutto il medioevo, i sogni di mezzanotte e i magnifici incubi d’un Masaccio e d’un Paolo Uccello, si risolvono nella chiarezza immobile e nella trasparenza adamantina d’una pittura felice e tranquilla ma che serba in sé l’inquietudine» (ivi, p. 28).
Ora, una volta identificato il senso possibile della formula ossimorica, riconosciuta la centralità di una figurazione opposta a tutti gli “ismi” (futurismo, cubismo), identificata la tradizione di appartenenza e le analogie con i movimenti coevi, resta una domanda. Che riguarda il senso di questa “magia”. Che non sembra essere né lo “stupore” né la “sopranatura”, ma neanche l’“inquietudine”. C’è qualcosa come una profonda malinconia che segna personaggi e scene rappresentate. Una malinconia come segno del “dopo”, del già-accaduto, che informa la realtà delle situazioni svuotate portate ad immagine. È il “sonno” profondo come assenza. Il corpo orizzontalmente disteso che porta con sé i segni di una energia finita, consumata, che ritroviamo anche nelle tre donne distese di Meriggio (1923) di Felice Casorati (che ha ispirato Dopo l’orgia) o nella stasi dei quattro personaggi di Pomeriggio a Fiesole (1926-1929) di Baccio Maria Bacci, dove a fine pasto un gruppo di quattro commensali ci viene restituito in posture stanche ed assenti, chi con una sigaretta in mano e lo sguardo perso nel vuoto, chi con una chitarra imbracciata senza entusiasmo, e chi – una ragazza – nella cornice di una finestra aperta con lo sguardo rivolto verso il basso.
È proprio questa spinta dello sguardo verso il “basso” a sostituire il corpo nudo disteso a terra. Non c’è nulla che in questa pittura si levi verso l’alto. Tutto spinge verso terra. Nei magnifici ritratti di Casorati, Silvana Cenni (1922), Cynthia (1924-25) e Raja (1925), o ne L’attendente medita (1925) di Carlo Levi o nel nudo in piedi de La toeletta del mattino (1922) di Mario Tozzi. E quando lo sguardo è frontale o laterale, l’occhio o è vitreo come in Doppio ritratto (1924) di Casorati o statuario come ne L’allieva (1924) di Mario Sironi o ne Il romanzo (1939) di Mario Broglio. Ma sempre privo di vitalità espressiva, di cui semmai resta traccia nelle posture delle braccia e delle mani (eredità del classico).
E allora questa malinconia del “dopo”, che sembra segnare i corpi anche quando sono eroticamente seducenti come in Grande nudo disteso (1925) di Ubaldo Oppi o in La conversazione platonica (1923) di Casorati, sembra anche segnare il “prima”. Non c’è un “prima” ricco di desiderio ed energia, ed un “dopo” che l’ha persa. Prima e dopo sono segnati dalla stessa assenza, dalla stessa astenia, dallo stesso senso di vuoto.
Ne sono splendida testimonianza Prima della canzone (Le due sorelle), del 1930, di Antonio Donghi, dove questo prima è solo composto meglio, meno sfatto, con una postura delle figure più eretta ed elegante ma non per questo più viva, con uno sguardo frontale ma non per questo più intenso, con una chitarra in mano (una sorella) e con una implicita prossimità al canto (la seconda), ma senza che musica e voce preparino ad una qualche imminente felicità. Tutt’altro. Tutto è fermo. I personaggi non sono abitati da alcuna potenza. Si esauriscono in una attualità senza dynamis.
Ne sono testimonianza due splendide opere esposte, sempre di Cagnaccio di San Pietro, senza dubbio alcuno il più intenso e radicale dei “realisti magici”. Una è Donna allo specchio (1927) in cui una donna, con un seno nudo, si guarda allo specchio intenta a passarsi il rossetto. Ce l’aspetteremmo pronta a prepararsi per qualcosa di bello prossimo a venire, ma il suo sguardo è vuoto, la sua mano appoggia incerta il rossetto sul labbro inferiore, e un senso di spaesamento abita la scena. Quella ragazza non (si) aspetta nulla, non desidera nulla, lo specchio non la gratifica. Nessuna attesa prende corpo. Il prima è vuoto come lo sarà il dopo. Nessun dolore, nessuna mancanza, nessuna frustrazione: il tempo non ferisce perché non crea aspettative. Quella bellezza resta lì attonita, davanti ad un senso della vita che lei, e noi con lei, non comprendiamo.
La seconda è un’opera di una malinconia radicale e totale, Bambini che giocano (1925). Qui l’infanzia e il gioco, che dovrebbero aprire entrambi al futuro e ad una sperimentazione intensa della vita, si ribaltano in un presente fermo: i tre bambini, dai volti adulti, sono di fatto isolati, non interagiscono, sono persi ognuno in un mondo che non sembra essere neanche il suo. E i giocattoli giacciono lì, separati anche loro, abbandonati a loro stessi come cose inerti, che non sembrano neanche chiedere di essere usati. Seduti o distesi sul pavimento, i bambini non sono attraversati da nessuna energia, perché nessuna possibilità si intravede, nessun futuro sembra aprirsi.
Allora la “magia” di questo “realismo” non è nulla di misterioso o misterico, è solo il contrassegno e il nome di un’anima (invisibile) che segna sempre la realtà (visibile) del quotidiano: figure, corpi, forme di vita, età, sessi, luoghi. Ed è a sua volta segnata da essi. E quando questa anima è senza dynamis il visibile si spegne, perde la sua energia, e i corpi diventano esausti, gli sguardi assenti, i sentimenti alienati. L’immaginario evapora e la materia resta senza soffio vitale, non più usata ma abusata (non poche le tracce di tutto questo nel Pasolini di Salò). E con lo stesso gesto pittorico sparisce la magia e con essa la realtà stessa del mondo.
Riferimenti bibliografici
G. Belli, V. Terraroli, a cura di, Il realismo magico. Uno stile italiano, 24 Ore Cultura, Milano 2021.
Realismo magico, a cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli, 19 ottobre 2021-27 febbraio 2022, Palazzo Reale di Milano
*In apertura e in copertina un particolare di Dopo l’orgia (Cagnaccio di San Pietro, 1928).