
La scelta del saggio di Mark Fisher, Realismo capitalista, per l’esordio della neonata collana Not di Zero Edizioni, non sembra essere dettata soltanto dall’intenzione di recuperare il gap che si è prodotto tra la pubblicazione del testo originale, nel 2009, e il dibattito culturale italiano, dove l’opera arriva, appunto, nel 2018. Non si tratta nemmeno di avviare un’operazione archeologica che riporti l’attenzione sull’attività del gruppo di intellettuali e attivisti del quale Mark Fisher ha fatto parte, ovvero la Cybernetic Culture Research Unit (CCRU), attiva presso l’università di Warwick a partire dalla metà degli anni Novanta. Si tratta, più specificamente, di ridare fiato ed energie ad un’importante analisi della contemporaneità, nel segno non più del postmodernismo ma del realismo capitalista, e di qui poter poi Inventare il futuro, per citare il titolo della terza pubblicazione di Not, firmata da Nick Srnicek e Alex Williams, e cioè da altri due esponenti della CCRU che sviluppano e amplificano la portata del discorso teorico di Fisher.
Ci sembra questo, infatti, il cuore della proposta teorica: verificare come, negli ultimi decenni, si sia andato cristallizzando in modo definitivo il motto thatcheriano There is no alternative (“Non c’è alternativa [al capitalismo]”), dando luogo ad una sorta di realismo egemone che, però, può essere adeguatamente criticato, per giungere infine a scoprirne i lati deboli e a organizzare nuove strategie politiche per combatterlo. Pur praticando una critica dell’ideologia non molto diversa da quella in voga negli ultimi tempi, dentro e fuori dall’accademia, la diagnosi di Fisher ha il merito di mantenersi sempre sulla soglia della “decostruzione”, evitando, cioè, di dare adito alle complicazioni teorico-critiche, spesso barocche, generate negli ultimi anni da quest’ultima.
Al contrario: la scrittura di Fisher è chiara e lucida e costituisce ancora oggi – forse soprattutto oggi, a dieci anni dall’inizio di quella crisi economico-finanziaria della quale Realismo capitalista è stata una delle prime e più azzeccate analisi – quella che Simon Reynolds, altro critico vicino alla CCRU, ha descritto come “una pietra miliare” del dibattito contemporaneo, scritta da una sorta di “John Berger post-rave” – definizione che, appunto, coglie con brillante sintesi, lo stile e la fruibilità dell’opera di Fisher.
In effetti, come per molti saggi di John Berger, il lettore è posto di fronte ad un saggio certamente agile, ma dalla genealogia critica assai ampia, nella quale convivono “in modo disinibito”, come qualche commentatore italiano ha avuto modo di scrivere, autori assai diversi come Gilles Deleuze e Félix Guattari (per l’Anti-Edipo), Fredric Jameson (citato spesso, e per testi di scarsa diffusione in Italia come The Geopolitical Aesthetic e The Antinomies of Realism), Slavoj Žižek (ancor più presente, ma spesso superato o ricusato, nonostante Fisher si rifaccia, implicitamente, ad alcuni pilastri della critica neolacaniana), Alain Badiou, Paolo Virno, Jean Baudrillard, Christian Marazzi, Bifo, etc.
Di questi autori, non interessa qui porre l’accento su quelle difformità teoriche e politiche che Fisher, del resto, non affronta; risulta forse più importante e urgente seguire da vicino il suo percorso da bricoleur, limitandoci a notare, di passaggio, come si registri una coraggiosa, e del tutto sintomatica, assenza per quanto riguarda il lavoro di Agamben, da un lato, e di Michael Hardt e Toni Negri, dall’altro (a pochi anni, in fondo, dall’uscita di Impero e Moltitudine, e in contemporanea con la pubblicazione di Comune).
Attraversando questa costellazione, Fisher identifica il “realismo capitalista” con il trionfo della sussunzione capitalista in ogni ambito della vita associata; il riferimento cinematografico che può essere ancora considerato paradigmatico – benché Fisher affronti film più recenti come I figli degli uomini (2006) di Alfonso Cuarón e Wall-E (2008) – è dunque La cosa (1982) di Carpenter.
Una simile analisi può preludere a un ritorno di fiamma per il Baudrillard che avvertiva l’emorragia del reale dopo la fine del simbolico (come si legge, effettivamente, a pagina 100), ma Fisher sceglie di mantenersi su percorsi più prudenti, mediati da una formula più complessa, come quella citata, nella stessa pagina, di Žižek: «La riduzione alla pura realtà [del postmoderno] manca il bersaglio». Ed è in questo mancare il bersaglio che Fisher trova gli antidoti più efficienti al realismo capitalista.
Si tratta, in breve e in ordine sparso, di combattere la catastrofe ambientale, di ri-politicizzare la salute mentale (partendo da una convincente analisi materialista dell’esplosione di ansie, fobie e “depressione” negli ultimi decenni), di combattere quella burocrazia che il neoliberismo (considerato niente più che “stalinismo di mercato”, e con molte buone ragioni) non elimina affatto, anzi promuove, di riformare radicalmente l’istruzione.
A quest’ultimo punto, Fisher dedica due capitoli, il quarto e il sesto, che mostrano chiaramente l’importanza della sua esperienza pedagogica come parte fondante del suo lavoro intellettuale, e che sono a tutt’oggi di straordinario interesse. Nel primo, si invita a considerare l’”edonia depressa” degli studenti di oggi, de-patologizzando i cosiddetti “disturbi dell’attenzione” e concentrandosi, piuttosto, sulla loro condizione di consumatori già formati e caratterizzati dall’«incapacità di non inseguire altro che il piacere» (p. 59). Nel secondo, si pone l’accento sull’incremento di burocratizzazione correlato alle pratiche di valutazione degli insegnanti, producendo uno scenario pedagogico devastante, non limitabile al solo caso britannico, dove «[g]li insegnanti si ritrovano intrappolati tra il ruolo di facilitatori-intrattenitori e quello di disciplinatori autoritari» (p. 66).
A tal proposito, Fisher avanza un’altra proposta operativa, che consiste nel preferire l’astensione da alcune pratiche specifiche, come quelle della valutazione, in luogo dei più tradizionali scioperi. Proposta senz’altro convincente e che potrebbe essere estesa ad altri ambiti di valutazione del merito – per quanto riguarda, ad esempio, la ricerca universitaria – ma che sottende anche la volontà di rottura rispetto alla sinistra tradizionale, percepita, come sottolinea giustamente Valerio Mattioli nella prefazione, come «vecchia». Nei confronti di quest’ultima, Fisher lancia «provocazioni» non di poco conto, che si traducono, ad esempio, nella critica dell’azione sindacale rispetto al lavoro precario o nella censura di ogni atteggiamento nostalgico verso un mondo di relazioni di potere, tra economia e politica, che si è andato definitivamente sgretolando, nell’ultimo decennio di crisi economico-finanziaria globale.
Tuttavia, osserva sempre Mattioli, Fisher offre non solo analisi critiche e provocazioni, ma anche «una consolazione», nell’aprire squarci verso un possibile futuro che si liberi dalle maglie del realismo capitalista. L’esito cui si prelude, implicitamente ma per certi versi molto chiaramente, è contenuto in Inventare il futuro di Srnicek e Williams, ossia in quell’accelerazionismo post-lavorista che, tramite un progressivo aumento dell’automazione e a una politica positiva della disoccupazione, tende ad una più efficiente ed equanime redistribuzione della ricchezza. Come ci si potrà accorgere leggendo questa sintesi estremamente semplificata, le mediazioni non sono più quelle tradizionali, poiché «l’obiettivo di una sinistra genuinamente nuova non è la conquista dello Stato, ma la subordinazione dello Stato alla volontà generale» (p. 146).
Un’apertura radicale, dunque, che rivendica libertà positiva là dov’è tramontato definitivamente ogni Grande Altro comunista, ma che si espone, al tempo stesso, al rischio di accelerare anche la divaricazione interna alla dialettica tra capitale e lavoro. Quest’ultima non sembra ancora essere tramontata e forse è molto di là dal tramontare, poiché, come sottolinea lo stesso Fisher, «se il neoliberismo non poteva che essere realista capitalista, il realismo capitalista non ha invece alcun bisogno di essere neoliberale» (p. 148). In altre parole, il rischio di rinnovare una politica di sinistra secondo direttrici non tradizionali, o comunque non marxiste, è, dunque, quello di aprirsi a nuove contraddizioni – com’è già successo, da posizioni, con il “populismo di sinistra” à la Laclau, prodotto speculare e opposto dello stesso contesto di crisi dalla quale emerge il lavoro di Fisher, Srnicek e Williams.
È un rischio, in ogni caso, che val la pena di correre, davanti a diagnosi tanto lucide, approfondite e fruibili, alzando la posta invece di recedere negli anfratti delle divisioni teoriche e di principio, e cercando quindi, nell’era dell’esplosione dei referenti, un referente che sia politico, ossia calato nella storia. La lettura di Fisher sembra richiedere soprattutto questo: un confronto aperto e nel merito, a partire da prospettive radicali e inedite, quali possono scaturire soltanto da un’opera che, a differenza di molta altra produzione intellettuale contemporanea, non è il saggio di un filosofo prêt à porter, ma qualcosa da “portare”, letteralmente, nel dibattito.
Con urgenza.
Riferimenti bibliografici
N. Srnicek, A. Williams, Inventare il futuro, NERO, Roma 2018.
F. Jameson, The Antinomies of Realism, Verso, New York 2013.
M. Hardt, T. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.