Il più riconoscibile dei riff anni ’80, quello di Jump dei Van Halen, apre le porte del futuro di Ready Player One: siamo a Columbus, in Ohio, nel 2045, e quell’utopia carica di euforia che ha caratterizzato gli anni in cui nasceva Internet, rievocata così epidermicamente dalla musica, viene rappresentata nel suo, forse inevitabile, smascheramento. In uno scenario post-apocalittico, dopo le carestie e le rivolte per l’aumento di banda, la gente vive in baraccopoli fatte di rifiuti e ha smesso di sperare di poter risolvere i propri problemi.

Equipaggiato di visore, l’umano del futuro non crede più di poter salvare il mondo dall’ingiustizia e dalla diseguaglianza con la tecnologia che si è trasformata in una forma ludica di evasione dalla realtà, sulla quale tuttavia ha degli effetti quantomeno paradossali – divertente e certamente non originale è la rapida sequenza della mamma che gioca sul divano, mentre il figlio cerca di richiamare la sua attenzione perché una pentola sta andando a fuoco. Questo altrove ludico ha un nome, Oasis, e il suo creatore, James Halliday, – un nerd visionario appassionato di cinema e cultura pop – poco prima di morire decide di nascondere all’interno del gioco quello che nel gergo dei videogame si chiama Easter Egg, ovvero una specie di verità, una sorta di rivelazione sul gioco stesso; chi riuscirà a trovarlo diventerà il maggior azionista di Oasis, che vuol dire decidere le sorti del mondo intero raccolto in una dimensione parallela. Da qui parte un action movie, che si muoverà continuamente tra il live action e l’animazione, e quindi tra il “reale” e il virtuale, dove il confine tra i due è segnato dalla storia d’amore che coinvolge i due giovani protagonisti, Wade e Samantha.

Questo percorso dei giocatori, e con loro dello spettatore, è scandito, come nel libro da cui è tratto, da riferimenti ed esplicite citazioni di film e videogame, in una grandioso omaggio alla cultura popolare e di intrattenimento, ma soprattutto a quella retromania che, come sostiene Reynolds (2011), è il segno distintivo proprio della cultura pop contemporanea, dalla musica alla moda, passando per il cinema e i videogiochi. Nell’era in cui l’archivio audiovisivo globale diventa quello spazio totalmente accessibile e partecipativo che è YouTube, la cultura pop, che storicamente è stata l’avamposto in cui si condensavano la visione e la speranza del futuro, diventa, invece, il luogo in cui la paura per l’ignoto viene esorcizzata in una forma di facile riattivazione del passato, generando un potente intreccio tra nostalgia e showbusiness, come dimostra il successo di molte serie tv dedicate agli anni ’80 e ’90, da Stranger Things a Everything Sucks, per restare in casa Netflix. E del resto è proprio questo il primo indizio verso la conquista dell’Easter Egg che Wade scopre, riguardando ossessivamente i filmati della vita di Halliday: “Perché non andiamo all’indietro, per un volta, all’indietro, velocemente, più veloce che puoi?”

 

Ma è davvero possibile? E non è forse un pericolo? In uno dei suoi ultimi testi Zygmunt Bauman (2017) ha teorizzato, nell’ambito di un’ipotetica “storia dell’utopia”, il concetto di retrotopia, con il quale intende l’emergere e il diffondersi di una tendenza collettiva a collocare le speranze di miglioramento non più nel futuro, ma in un passato che sembra poter garantire sicurezza e stabilità. Scrive Bauman: «Nella staffetta della storia, “l’epidemia globale di nostalgia”, ha raccolto il testimone della precedente “epidemia della smania per il progresso”» (Bauman 2017, p. XIV). Il sociologo polacco utilizza questo concetto per spiegare l’intreccio, nell’era della globalizzazione, tra la crisi dei sistemi di potere e rappresentanza e la possibilità di una comunità «cosmopoliticamente integrata» minacciata mortalmente e definitivamente da questa «inversione di rotta della mentalità e degli atteggiamenti pubblici» (p. XVI) che si incarna, ad esempio, nei nuovi nazionalismi e nella crisi dell’Unione Europea. A fronte di questa analisi la posizione di Bauman è netta: bisogna guardare avanti per cambiare, rinunciare, per la prima volta nella storia dell’umanità, al concetto di nemico o estraneo, per «progettare un’integrazione che non sia più fondata sulla separazione» (p. 162). Scrive Bauman: «Noi – abitanti umani della terra – siamo come mai prima d’ora in una situazione di aut-aut: possiamo scegliere se prenderci per mano o finire in una fossa comune» (p. 169).

L’Easter Egg di Ready Player One ha a che fare con una declinazione di tale epocale questione, ovvero con il rapporto tra utopia, realtà e possibilità di una comunità. La verità che Halliday consegna a Wade appare problematica se presa alla lettera, nel suo contenuto manifesto, per dir così. “La realtà è l’unica cosa che è reale” e per questo Wade, diventato capo di Oasis, decide, in una specie di atto censorio, che il martedì e il giovedì il gioco verrà chiuso, per permettere alle persone di vivere nel mondo reale, per “costringerle” a costruire relazioni e coltivare sentimenti, a fare cose “vere” insomma. Ma qual è la realtà che ci presenta il film? È quella di un lieto fine hollywoodiano di una storia d’amore adolescenziale, in cui il ragazzino nerd si trasforma in eroe e decide di fare il salto (baciare la ragazza che ama), mentre il cattivo, che può finalmente eliminare il suo giovane nemico, decide inspiegabilmente di non farlo; è la realtà, dunque, di un finale ostentato nella sua dimensione finzionale, è la realtà dell’immaginazione, del cinema, che si presenta così come l’unico luogo in cui una dimensione utopica per l’affermazione del bene è ancora possibile.

Eppure il film di Spielberg sconfina rispetto alla stessa tesi che esplicitamente sostiene. E l’elemento che testimonia tale sconfinamento è proprio quello della comunità che non può che organizzarsi nelle forme immersive spettacolarizzate dalla rimediazione cinematografica.  Gli umani con i visori – la cui immagine è stata molto spesso ripresa nei discorsi correnti sul nostro presente per mostrare l’orlo del baratro su cui camminerebbe la nostra specie, pensiamo ai discorsi su Pokémon Go – acquistano ora un nuovo spessore, una incredibile potenzialità, perché l’ipermediazione immersiva della dimensione ludica (gli amici di Wade mostrano al mondo intero l’impresa del loro amico) diventa la condizione imprescindibile per la mobilitazione e la ricomposizione della comunità.  Che il film non ci stia dicendo che il dialogo su cui deve fondarsi la comunità a venire non passi anche per l’integrazione di realtà mediali differenti e per una dimensione ludica ancora tutta da costruire, eppure cruciale per questo compito epocale e definitivo che ci aspetta? Forse non dobbiamo trovare il coraggio di spegnere il modem, ma di prenderci per mano, andare avanti e saltare.

Riferimenti bibliografici
Z. Bauman, Retrotopia, Laterza, Roma-Bari 2017.
S. Reynolds, Retromania, Isbn Edizioni, Milano 2011.

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