L’istanza di un’ipotesi poetica traspare in evidente sottotraccia in questo ultimo lavoro di Lello Voce, edito da La nave di Teseo. Essa si presenta immediatamente secondo la figura di un ossimoro, adoperandosi tra la certezza e l’occultamento, attraverso l’evidenziazione di qualcosa – la scrittura poetica – che però gioca a nascondersi, ad arte, nell’assenza. Razos, che è il titolo dato al libro, riprende l’usanza antica trobadorica di anticipare, con alcune note in prosa, le ragioni, le tematiche e le argomentazioni di un determinato componimento poetico che segue nel testo, o che almeno, dovrebbe seguire. Ma di quelle poesie, in questo caso, solo le introduzioni sono date alla nostra lettura. Infatti, una prima ampia sezione del libro descrive dei componimenti immaginari, che non esistono ancora e che forse mai vedranno la luce. Ogni possibile produzione in versi viene lasciata in eredità e liberamente in usufrutto a coloro che si lasceranno guidare dalle istruzioni per l’uso, precise e puntuali, che spaziano dalla ritmica aritmetica all’invisibilità delle rime, dal dolore al lieto fine, dal vuoto alla sazietà, dall’erranza fino al raggiungimento di un “concreto disincanto”.

Proseguendo nella lettura delle 17 razos, verrebbe da chiedersi: “Come pensare la poesia?” o anche: “Come pensa la poesia?”. Si tratta, infatti, di una serie di pensieri, di immagini, di parole che evocano le proprie ombre impostate dallo zenith della luce piena della scrittura. Una scrittura, le cui intenzioni demandano a qualcosa che sostanzialmente non c’è: quel componimento di cui si sta trattando. Descrivere questo testo, che mette all’angolo il poetare per un momento, non può far altro che aggiungere parole alle parole e farne discorso, per estrapolare altre immagini, proseguendo con la linea nera dello scrivere in prosa sul fondo bianco della pagina, trattenendosi sull’orizzonte opaco della poesia. Non si può che seguire le istruzioni. Alla fine, si scoprirà, non senza sorpresa, «che ogni poesia è un caleidoscopio di parole che ogni lettore potrà scuotere e ruotare a suo piacimento e a suo danno». In questo giocare volutamente discordante, dove ogni termine si accompagna al contrario di se stesso, in un gioco infinito di specchi, è come se fossimo proiettati dentro quel caleidoscopio e da lì ci fermassimo, ancora una volta, a osservare il mondo. Ad ogni rotazione del marchingegno, è come se ci trovassimo proiettati di fronte ad un continuo incipit, alla ricerca spasmodica e intrattenibile di una sola parola che le racchiuda tutte, ma senza raggiungere alcun compimento, perché l’avanzare della poesia sovrasta festosamente ogni intenzione e la ricopre di versi, di balbettii, di lallazioni. È, quindi, una ricerca appassionante e al tempo stesso affannosa, che lascia senza fiato, quel fiato che è necessario al recitare a memoria, o all’assecondare l’improvvisazione del poetry slam.

Sembrerebbe, inoltre, che qui si faccia della filosofia della poesia o poesia della filosofia, in uno scambio eterno del genitivo oggettivo-soggettivo. La domanda che si intravede da questo ragionare ampio si trova perennemente ad affrontare il binarismo astratto di una operazione a soluzione o negativa o positiva. Tranne poi lasciare in sospeso ogni conclusione, tant’è vero che: «Così chi, leggendo la poesia, volesse scoprire cosa realmente sia l’amore, ne resterà deluso. Allora chiuderà il libro e cercherà di ricordare di nuovo cosa dicesse il verso cancellato», come scrive l’autore. Così, le ricche istruzioni, dense di dettagli, rivolte a coloro che leggono sono offerte come in un manuale in cui sono disegnati dei diagrammi di flusso, dove il percorso è indicato minuziosamente per essere condotti poi a un non-luogo, a un non-verso o al loro esatto opposto, a seconda dei casi, a seconda della scelta.

Eppure, ogni sforzo sembra vano, perché il poetare ruota intorno ad un vuoto circolare, come un ricamo intorno ad un’immagine buia, pallida e oscura che non si riesce a vedere bene. È l’immagine di un reale che ci sfugge, che resta imbrigliato come l’ombra di un foro nella tela, il cui rammendo si limita ai bordi stracciati, fermandosi appena in tempo, al semplice scopo di tratteggiarne il danno. Un indugiare sui lembi che segnala un reale che si mostra al negativo, intorno al quale la parola poetica sta come una sutura sul limite di quel vuoto perenne che ricorda, per certi versi, un’ipotesi lacaniana. Un reale che è superamento del regime simbolico, che è tuttavia carico di una materialità stratificata e ossessiva. Non a caso, «c’è un enorme buco al centro di questa poesia» recita una delle razos.

Nonostante ciò, si procede scientemente per concatenazione di elementi, per contrasti, per sostanze complementari, per via apofantica: una elencazione per opposti che potrebbe continuare ad libitum, per quanto infiniti possono essere i termini a disposizione. Si procede per contrapposizioni al fine di cercare di illustrare meglio qualcosa che sfugge costantemente ad ogni definizione: la poesia e la vita o la vita della poesia, che ad ogni modo non è mai la poesia della vita. Allora non resta che affidarsi al suono, alla ritmica, agli accenti, acuti o gravi che siano, come se quelle parole potessero farsi colonna sonora di tutta una vita. Ci rimane solo il suono, il suono delle parole pronunciate e ascoltate, sussurrate o gridate a chi le ascolta, recitate da Voce, perché esse non sono più scritte, ma viventi e destinate ad essere cantate, come se si facesse della musica che si elevi dal piano del silenzio. In quel mentre, entrano in campo anche le sonorità ironiche, come le istruzioni per l’uso di una «poesia elettrica» , di una «poesia cieca» o di una poesia «nata prima dei poeti».

La serie di descrizioni, il cui testo non è dato, sono realistiche e autenticamente evocate: sono una sequela densa di immaginari, che sta a chi legge crearseli in autonomia, seguendo i sentieri appena accennati con determinazione e in punta di piedi (perché è proprio stando in punta di piedi che Voce, dal vivo, dice i suoi componimenti). Per tutto questo però «è sempre un’altra poesia che un altro legge». Come se una nuova opera emergesse tra le macerie di un’altra che c’era già da prima. In questo frangente, è un po’ come se le note a margine del testo si fossero espanse e avessero preso il posto di ciò a cui fanno riferimento, fino a farlo sparire. Così la poesia è in fuga, sta da un’altra parte, si è trasferita e ci manda le cartoline dai luoghi che sta visitando. Perché laddove è andata, sta bene, sola e in compagnia di queste istruzioni per l’uso di se stessa. Si tratta di fuga e scomparsa, sopravvivenza e vita postuma, non di una dipartita però, forse di una minaccia o della promessa di un ritorno, questo certamente sì.

Ciò che rimane in chiara filigrana tra queste pagine dense sta nell’ordine dell’indicibile e dell’indecidibile di cosa sia poesia, di cosa faccia «della poesia una poesia e di cosa fa della vita una vita», come si legge nell’ultima delle razos. La questione appare come un sinolo irrinunciabile, che, malgrado tutto, ostinato, procede nella fine scrittura senza remore né arresto, accompagnato dal rumore di un meccanismo la cui molla è una spirale infinita. Segnato dal ritmo calcolato al decimo di secondo dei 17 madrigali – che compongono la seconda parte del libro – il suo moto procede ad ogni costo, senza mai esaurirsi negli inciampi dello scrivere, da cui, paradossalmente, trae l’energia per riprodursi. Le parole di quei versi, misurate ad arte, sembrano generarsi da sé stesse, in uno spazio in cui l’estrema vicinanza della pagina continua a riconnettersi, ad ogni passo, con una distanza siderale. «Le parole, sono finte file, furbe feste del senso, /strade cieche, legacci prepotenti, fame e stenti, /sono tessuti senza pelle e senza pori» e ciò che ci viene detto di fare è ascoltarne «l’odore e carezzando il verso, a respirarlo». Sono aria che emanano il sentore di una vita, il pulsare di un cuore che non fa più rima con amore, perché quei componimenti non sono altro che «lettere tolte a sorte dal sillabario delle aorte». E non senza ironia, si congedano in fila per «tre, trentatré, trecentotrentatré».

In un turbinio senza fine che si alimenta da sé, questa scrittura assomiglia a una cadenza che interviene oltre la partitura scritta, sempre un momento dopo la fine della sua esecuzione. Ed è in questo tempo residuo che si inseriscono le razos, passi in prosa che indicano i motivi del fare poetico di un testo che è ancora di là da venire, di cui ci è restituita soltanto la suggestione di una poliedrica indicazione. Esse sono l’ombra portata di un oggetto appena evocato da una prosa che non prevede pause, se non lo spazio bianco tra una riga e l’altra di una poesia. Ed è proprio in quel vuoto che ci si lascia catturare, perché, in fondo, «chi si bagna nell’acqua salata di queste parole, mai più si asciugherà».

Lello Voce, Razos, La nave di Teseo, Milano 2022.

Tags     Lello Voce, Poesia
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