Non è un film sulla religione. Tantomeno sulla religione cattolica. In effetti se c’è un modo per equivocare Rapito è vederlo come un film contro la chiesa cattolica (anche se, ovviamente, è anche un film sulla religione cattolica, e sulla sua costitutiva incapacità – allora come oggi – di comprendere il mondo moderno). Detto per inciso, una religione è propriamente una religione solo se propone una visione del mondo diversa da quella prevalente, altrimenti è del tutto inutile. Una chiesa cattolica, quella di Pio IX, peraltro assolutamente indifendibile se appunto valutata secondo i criteri del mondo contemporaneo.

Rapito, inoltre, non è nemmeno il film che mostra la storia di una vittima innocente, il piccolo ebreo Edgardo Mortara, inspiegabilmente e assurdamente strappato alla famiglia d’origine in nome dei princípi dello stato Pontificio (la vicenda comincia a Bologna nel 1858) che stabilivano che un battezzato (in qualunque modo il battesimo fosse avvenuto) non potesse vivere in una famiglia di un’altra fede. Certo, questo non toglie che Edgardo Mortara è una vittima di un rapimento. Ma, e qui comincia invece quello che il film ci invita effettivamente a vedere, c’è qualcuno, fra noialtri umani, che non sia vittima di un rapimento?

Prendiamo proprio il piccolo Edgardo Mortara, che nasce in una famiglia di religione ebraica. Quindi Edgardo è ebreo. Ma in che senso Edgardo ha scelto di essere ebreo? Forse il gesto della domestica cattolica Anna Morisi che lo battezza all’insaputa della famiglia – e quindi contro la volontà di madre e padre – è più arbitrario di quello che lo ha reso, sempre a sua insaputa, un piccolo ebreo? Chi sceglie di essere ebreo, cattolico, musulmano o ateo se nasce in un ambiente senza religione? C’è sempre qualcuno, o meglio un apparato istituzionale, che sceglie per noi. Essere umani significa essere l’oggetto di una decisione che ci precede, una decisione che nessuno, propriamente ha deciso.

Ce lo mostra proprio il caso di Edgardo prima del rapimento. La sua famiglia d’origine è di religione ebraica, quindi Edgardo sarà ebreo. Se Edgardo fosse nato in una famiglia cattolica sarebbe invece stato battezzato, e quindi sarebbe stato un cattolico. Se proviamo a vedere questa vicenda dal punto di vista del piccolo animale umano che è stato deciso che si chiamerà Edgardo – e anche questa decisione ovviamente avviene a sua insaputa – è così diverso essere incluso nell’insieme degli ebrei anziché in quello dei cattolici cristiani? In che senso l’identità religiosa, come quella etnica o linguistica, è il risultato di una decisione esplicita? Si nasce ebrei, o cattolici, oppure si diventa – in seguito ad una decisione non decisa – ebrei o cattolici o atei?

Se proviamo a vedere la vicenda di Edgardo sotto questo punto di vista si capisce perché Rapito non è tanto un film sulla religione, e tantomeno sulla religione cattolica. Propriamente non è nemmeno un film contro la religione, anche se il modo in cui il cattolicesimo viene mostrato – attraverso gli sguardi stupefatti e impauriti del piccolo Edgardo sulle truculente immagini del Cristo e dei martiri nelle chiese dove entra per la prima volta nella sua vita – ci dice probabilmente qualcosa su come il piccolo Marco deve avere vissuto la sua iniziazione religiosa nell’Italia preconciliare.

Rapito è un film sul potere, e più precisamente sugli apparati di potere che hanno come principale funzione quella di – letteralmente – “mettere in forma” i corpi dei piccoli animali della specie Homo sapiens per trasformarli in esseri umani. L’oggetto del film, allora, è quello che Franco Basaglia chiamava il «corpo istituzionalizzato» (Basaglia 2017, p. 623), ossia un corpo «vissuto nell’istituzione, per l’istituzione, tanto da essere considerato come parte integrante delle sue stesse strutture fisiche» (ivi, p. 424). È il caso di Edgardo in classe, che risponde – ripetendo parola per parola il dettato del catechismo – alle annoiate e finte domande (ché il sacerdote conosce già le risposte) del sacerdote in cattedra.

Quello che vediamo è il corpo di Edgardo completamente assorbito all’interno del dispositivo scolastico. In effetti in Rapito vediamo diversi tipi di istituzione, cioè di apparati che hanno come scopo la formazione del corrispondente “corpo istituzionalizzato”: la religione (in questo film quella cattolica ed ebraica), la famiglia, la scuola, il tribunale, tutte “macchine” sociali che prendono in input dei corpi “grezzi” e restituiscono in output dei corpi istituzionalizzati, ossia dei corpi adattati al meccanismo istituzionale. Perché il potere, come diceva Foucault, «lascia dei marchi nel corpo e nella psiche» (Foucault 2012, p. 81).

È a partire da questi “marchi” che occorre partire per provare a capire perché Bellocchio ci abbia proposto proprio la terribile ma anche misteriosa storia di Edgardo Mortara. Il primo elemento da ribadire è che il “soggetto” Edgardo esiste solo perché è già stato rapito dal dispositivo familiare, il primo e spesso il più importante degli apparati di potere nella vita degli esseri umani. In effetti non esiste soggettività se non esiste un corrispondente dispositivo di soggettivazione. Questo vuol dire che il soggetto Edgardo non sarebbe potuto esistere se, alla sua nascita, non fosse già stato operativo il dispositivo familiare che lo avrebbe sussunto per formare, nel suo caso, un piccolo ebreo. Sarebbe stata la stessa cosa se, invece di nascere in una famiglia di religione ebraica, fosse nato in una famiglia di religione cattolica; sarebbe cambiato solo l’output, in questo caso il “prodotto” sarebbe stato però un piccolo cristiano.

Questa precisazione permette di liberare il campo dall’idea che, prima del dispositivo di soggettivazione, già esistesse un soggetto autonomo dotato di volontà e capacità di decidere. Al contrario, è il dispositivo di potere che “produce” il soggetto che quello stesso dispositivo vuole controllare. In effetti il dispositivo, qualunque dispositivo sociale, ha bisogno che il “corpo istituzionalizzato” aderisca “volontariamente” al progetto di asservimento. Il potere non si accontenta dell’obbedienza, pretende un’obbedienza convinta, un’obbedienza “liberamente” decisa. Il carattere paradossale di questa ingiunzione è al centro del film di Bellocchio, perché da un lato la chiesa cattolica letteralmente rapisce un bambino togliendolo brutalmente dalla sua famiglia, dall’altro, però, pretende – prima da parte del piccolo Edgardo, poi dalla stessa famiglia Mortara – che questa azione violenta e inumana venga presa come un’azione non solo inevitabile (un battezzato non può crescere in una famiglia di non battezzati) ma addirittura riconosciuta come giusta. Il potere non si accontenta di essere brutale, vuole anche e soprattutto che questa brutalità sia riconosciuta come ragionevole e giuridicamente corretta. Vuole la sottomissione, ma vuole che la questa stessa sottomissione sia scelta volontariamente.

Per questa ragione diventare un “corpo istituzionalizzato” richiede, prima di tutto, delle tecniche attraverso cui viene formata una “libera” soggettività capace di accettare volontariamente, e possibilmente con soddisfazione, quel potere che non ha altro scopo che controllare quella stessa soggettività. Questa doppia implicazione fra il soggetto e i dispositivi di soggettivazione permette di liberarci dell’equivoco – che ci porterebbe a vedere Rapito solo come un film sulla sopraffazione religiosa e sulla conseguente limitazione della libertà – in base al quale si ipotizza, al di qua del dispositivo di potere, un soggetto originariamente libero, un soggetto che, nel caso della vicenda storica di Edgardo Mortara, sarebbe stato privato della sua liberta ad opera di una istituzione crudele e spietata.

In realtà in tanto Edgardo è libero in quanto è stato rapito – e quindi privato della libertà – da un preesistente dispositivo sociale. Edgardo, cioè, comincia a sperimentare la possibilità della libertà solo dopo che è stato strappato via dal primo dispositivo in cui era intrappolato, la famiglia, per essere trasportato – contro la sua volontà – in un altro dispositivo, altrettanto potente e totalitario, la chiesa cattolica. Senza il rapimento Edgardo sarebbe rimasto, come tutti noi, all’interno del primo dispositivo che si è occupato di lui, senza neanche immaginare di avere la possibilità di poter scegliere il dispositivo da cui farsi catturare. Prima il rapimento, poi la libertà, è questa la strada inusuale e controintuitiva che Bellocchio ci propone di seguire. Solo quando ti accorgi di essere in trappola, cioè di essere stato rapito, possiamo dirci, come osserva ancora Foucault, «dunque, non siamo in trappola» (ivi, p. 208).

Il momento decisivo del film, in questo senso, è la scena in cui Edgardo, ormai giovane sacerdote, trasportato dalla passione per Pio IX corre verso di lui per abbracciarlo durante una cerimonia religiosa, ma con un tale impeto da farlo cadere violentemente per terra. Eccola, la scoperta della libertà, che non può non avere un carattere ambivalente, perché Edgardo in tanto ama l’uomo che lo ha fatto rapire – e così facendogli scoprire la possibilità della libertà – in quanto però lo odia, e proprio perché lo ha fatto rapire. Lo stesso titolo del film gioca con questa inevitabile ambivalenza, ché accanto al rapimento come l’azione del portare via con la violenza, c’è anche il rapimento amoroso e mistico, che invece è pieno di passione e gioia. Si spiega anche perché il primo titolo di questo film avrebbe dovuto essere Conversione, che forse sarebbe stato più adeguato al senso complessivo della vicenda mostrata.

In effetti Edgardo, una volta liberato dall’esercito piemontese nel 1870, sceglie di non tornare a vivere con la famiglia a Bologna, perché ormai ha deciso di vivere la vita che gli è stata imposta con la violenza dopo il rapimento. Edgardo ha deciso di fare la sua vita che gli è stata imposta. In questo senso quella di Edgardo è una conversione, perché sceglie volontariamente la vita che non ha scelto di vivere. La conversione, infatti, non è tanto un radicale cambiamento della vita, piuttosto il gesto – forse l’unico gesto sovrano che ci è consentito – di abbracciare con tutti noi stessi la vita che ci è capitato di vivere. In questo modo si trasforma la necessità in contingenza. Questa è la libertà.

È l’aspetto più interessante, e chiaramente di ispirazione psicoanalitica (ché l’obiettivo di ogni analisi non consiste in altro che nella scoperta sconcertante della possibilità della libertà), del film di Bellocchio. Non è che Edgardo sceglie di rimanere con chi lo ha strappato dalla famiglia perché ancora succube del potere che lo ha rapito; questa è la spiegazione di chi pensa che, diversamente da come riteneva Foucault, noi siamo sempre in trappola, e quindi non possiamo fare altro che rimanere invischiati nella prima trappola (tipicamente la famiglia) in cui siamo caduti. Di chi pensa, in sostanza, che non smettiamo mai di essere delle vittime.

Al contrario, Edgardo lavora su sé stesso per diventare il responsabile della propria vita (cioè appunto per smettere di essere una vittima), che poi questa vita sia quella di un sacerdote bigotto e fuori dal tempo oppure quella del devoto ebreo che sarebbe potuto diventare se non si fosse mai mosso da Bologna, evidentemente non fa molta differenza. Edgardo, come scrive ancora Foucault, fa «pertanto della propria vita un’opera – un’opera che sia bella e buona, come dev’essere tutto ciò che viene prodotto da una buona tekhné, da una tekhné razionale – implica necessariamente la libertà e la possibilità di scegliere da parte di chi utilizza la propria tekhné» (Foucault 2011, p. 379.

Rapito è allora una storia di appropriazione (e non di ri-appropriazione) del proprio destino, e quindi un film sulla libertà, cioè sulla doppia possibilità di scegliere di essere o di non essere come un potere ha voluto che fossimo. La storia di Edgardo è terribile, ma anche – e paradossalmente – piena di ottimismo: esiste sempre la possibilità di non essere semplicemente una vittima.

Riferimenti bibliografici
F. Basaglia, Scritti 1953-1980, Il Saggiatore, Milano 2017.
M. Foucault, Discipline, poteri, verità. Detti e scritti 1970-1984, Marietti 1820, Bologna 2012.
Id., L’ermeneutica del soggetto, Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2011.

Rapito. Regia: Marco Bellocchio; soggetto: Daniele Scalise; sceneggiatura: Marco Bellocchio, Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati, Daniela Ceselli; fotografia: Francesco Di Giacomo; montaggio: Francesca Calvelli, Stefano Mariotti; musiche: Fabio Massimo Capogrosso; interpreti: Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Enea Sala, Leonardo Maltese; produzione: IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema, Ad Vitam Production, The Match Factory; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, Francia, Germania; durata: 134’; anno: 2023.

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