L’essere spettatore (il guardare, lo sguardo, il colpo d’occhio,
le pratiche di osservazione, la sorveglianza e il piacere visivo)
può essere una questione altrettanto profonda delle varie forme di lettura.
W.J.T. Mitchell, Wittgenstein’s Imagery and What It Tells Us
«Quando lavori così intensamente sui dettagli perdi di vista il senso complessivo». È quel che accade a Silvia (Giovanna Mezzogiorno) nel denso corpo a corpo con il dipinto che sta restaurando in una delle scene più risolte di Palermo Shooting di Wim Wenders (2008), film piuttosto opaco per un eccesso di didascalismo che tende a saturare i piani del racconto. L’opera in questione è il Trionfo della morte, manifesto di una Palermo attraversata da “voci” e tensioni universali, che offre a Wenders l’occasione per dispiegare la sua meditazione sulla vita e sull’arte (di vedere). Finn (Campino), fotografo che per mestiere è chiamato a trasformare porzioni di spazio in cristalli di tempo, si trova imbrigliato in una rete di visioni che mina alla radice il suo equilibrio, costringendolo a interrogarsi sul significato e sull’origine di ciò che crede di vedere, ma il confronto con la restauratrice e l’immersione dentro la superficie del quadro avviano un nuovo percorso di conoscenza che ribalta la prospettiva della storia. Al di là di echi bergmaniani e antonioniani, per altro suggeriti dallo stesso Wenders nei titoli di coda, quel che rende interessante questo esercizio di sguardo è proprio il richiamo all’ambiguità del Trionfo della morte, alla polarità delle figure disposte simmetricamente ai lati della scena nonché al sentimento delle cose che le attraversa.
Il dialogo fra Silvia e Finn rivela la centralità dell’affresco nell’economia della diegesi; lo scambio fra i due personaggi a cospetto della magnificenza visiva del Trionfo rende possibile l’incarnazione delle linee di tensione del plot (soprattutto in riferimento al tema delle frecce, su cui è costruita la flânerie di Finn dentro i reticoli della città fino al vis à vis con la Morte) e allo stesso tempo mette in chiaro la tensione ecfrastica del regista, capace di disambientare i “modi” del dipinto attraverso un’allegorica esplorazione dei «sensi del luogo» (Wenders 2007).
Se Silvia ammette di aver perso «la visione totale» a causa della prolungata esposizione alle schegge visive dell’affresco, Michele Cometa dà prova di saper tenere insieme le linee di fuga di questo «corrosivo programma iconografico» (Cometa 2017, p. 112) grazie a un saldo impianto teorico e uno stile narrativo di grande respiro. Nel suo studio sul Trionfo della morte (Quodlibet 2017) emerge la coerenza di un metodo di osservazione forgiato attraverso una lunga militanza nel côté della Visual Culture cui si aggiunge, in un’inedita e appassionante combinazione, una piacevolezza descrittiva che in certi passaggi trasforma l’analisi in racconto letterario.
Sulla scorta di Michel de Certeau, secondo il quale la letteratura è il «discorso “logico” della storia, la “finzione” che la rende pensabile», Cometa distende il suo sguardo lungo tutto il perimetro dell’affresco, ne scruta le ombre, le rime, i suoni e le corrispondenze, provando a spingersi dentro gli abissi di questa “predica figurata”. Pur tenendo in gran conto la stratificazione semantica e storiografica sorta intorno al dipinto, sceglie di lasciare fuori campo questioni di natura contestuale e stilistica – proprie di approcci più tradizionali e comunque già sedimentati – per muoversi in una precisa direzione ermeneutica: «il riconoscimento del segnale che da questa immagine si diparte, una luce che intercettiamo e comprendiamo a distanza di secoli perché ci parla di un’esperienza che s’irradia nel nostro mondo, nel nostro tempo, che determina ancora oggi i nostri sentimenti, le nostre azioni» (Cometa 2017, p. 25).
Nella prima parte del volume, non a caso intitolata Narrazioni, Cometa inquadra lo spessore diegetico del suo oggetto di studio, ne misura la consistenza volumetrica e la tensione polifonica fino a porsi la fatidica domanda, che di fatto sostiene l’intero studio: «quale storia vi si narra?» (ivi, p. 35). Una prima risposta si trova nella seconda sezione, Le forme dell’affresco, che serve a individuare e isolare «tredici scene che gravitano intorno agli sguardi dei personaggi, ripartite a loro volta in quattro ellissi che dividono l’immagine in quattro grandi “narrazioni”» (ivi, p. 41). La minuta scansione di questo mirabile theatrum mundi, lungi dal far perdere – come nel film di Wenders – la «visione totale», restituisce l’intima pulsione che anima le pieghe del racconto, ovvero una misteriosa danza di occhi. Il vortice che avvolge lo spazio e i personaggi, ben descritto da Michele Cutaia, trova nel gioco incrociato di sguardi intra ed extradiegetici l’onda vitale in grado di spezzare, anche solo per brevi istanti, la corsa inarrestabile della morte. Fermandosi a interrogare le ardenti orbite dei personaggi, in uno sforzo descrittivo di rara precisione, Cometa ricostruisce la drammaturgia dell’opera, registra le segrete simmetrie tra le figure (è il caso della corrispondenza fra la mendicante orante e l’ancella pietosa) e infine coglie l’ambigua declinazione di soggettività in transito, sospese nella fatale atmosfera di un giardino di delizie e affanni. La potenza simbolica dell’hortus conclusus, di chiara ascendenza medievale, trova nel dipinto nuove energie, attivate dalla sensibilità di chi oggi guarda a quello specchio di corpi attraverso le lenti della modernità.
La terza parte del volume, la più ampia e la più ricca di rimandi intratestuali, si immerge nel ritmo vorticoso della narrazione par image distillando tutte le nuances di un livido Teatro del mondo. Tra le tante considerazioni proposte, scandite da una prosa avvolgente e sorvegliatissima, è opportuno richiamare innanzitutto il denso paragrafo sulle Sinestesie, che insiste sul principio del giardino come «luogo dei sensi» (ivi, p. 75) e si sofferma sul primato del tatto e dell’udito come motrici delle relazioni tra i personaggi. Non sfugge poi, alla lucida osservazione di Cometa, il risalto delle tre dame poste al centro del campo, probabile figurazione delle Parche intente a intrecciare il destino dei mortali. Qui, nel dettaglio delle mani delle donne, si coglie l’indizio di una «nuova semantica» (ivi, p. 86), capace di sovrapporre in un unico segno il riverbero delle «Ninfe […] e delle Grazie impalpabili» (ivi, p. 87). Altrettanto decisivo, ai fini di un’interpretazione d’insieme, ci pare il capitoletto intitolato Fuori quadro che mima l’opzione visiva incarnata non solo dal paggio con i cani ma anche da noi spettatori, se è vero che, «quando guardiamo al di là dell’immagine, possiamo solo sprofondare nella più cupa malinconia» (ivi, p. 123).
Nonostante lo sgomento di fronte al vuoto della fine, l’ultimo frammento di questa appassionata avventura ecfrastica non rinuncia a una speranza larvale, come dimostrano le voci che si addensano nel capitolo conclusivo. Sono sei le Stimmungen con cui lo studioso congeda il lettore-spettatore, quasi delle «rapsodie filosofiche la cui eco si avverte nel presente» (ivi, p. 25). Rubricate in coppie (lo stupore e lo sdegno, la consolazione e la cura, la nostalgia e la speranza), queste tonalità dell’animo attraversano la superficie del dipinto ancorandosi ai visi e alle mani, secondo un calcolato ritmo che passa dallo schianto alla pietà. Se lo stupore «è virtù intrinseca di ogni immagine» (ivi, p. 135) lo sdegno, al contrario, «è un sentimento moderno, […] una dichiarazione di ostilità e rifiuto del mondo» (ivi, p. 139); di fronte al male universale non resta che aggrapparsi a chi è capace di consolare, come la dama bianca il cui sguardo è «una protesi del tempo mondano che si sporge sull’eternità» (ivi, p. 141). Saper vedere oltre l’abisso, superare i limiti del quadro: è questo il messaggio recondito che il falconiere – spalle alla scena – consegna ai posteri, congelando una posa che rappresenta l’unico, vero scacco alla morte. I suoi occhi persi oltre la linea della siepe sono l’incarnazione viva di un pensiero utopico, la manifestazione di una «nostalgia di futuro» che rompe gli argini della figurazione medievale. È solo grazie alla letteratura, al brivido di modernità dell’infinito leopardiano, e ancora alle tempeste e agli assalti del Romanticismo, che l’ambiguità del Trionfo può raccontare «un mondo che si salva cadendo» (ivi, p. 148). Perché questo accada, però, è necessario che lo studioso faccia in modo «che il vedere si mostri» (Mitchell 2007, p. 42).
Riferimenti bibliografici
M. Cometa, Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, Quodlibet, Macerata 2018.
M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Raffaello Cortina, Milano 2012.
F.J. Martucci, a cura di, Gli spazi di un’immagine, Feltrinelli, Milano 2009.
W.J.T. Mitchell, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa e V. Cammarata, Raffaello Cortina, Milano 2017.
Videopresentazione di Il trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, a cura di V. Majorana, D. Pellegrino, M. Rizzarelli, «Arabeschi», a. V, n. 10.