Romanzo teatrale, commedia familiare

di BRUNO ROBERTI

Qui rido io di Mario Martone.

In un silenzio assoluto una veduta dei Lumière appare a tutto schermo: il lungomare di Napoli a inizio secolo, sullo sfondo il Vesuvio, un passante si ferma a guardare verso la macchina da presa, il suo volto pare interrogarci in un cortocircuito tra noi spettatori del presente e quel passato che pare rivivere anacronicamente e cancellare in un colpo solo tutto il “cartolinesco” napoletano, trapassare le mille maschere dietro cui si nasconde da sempre una città-teatro come Napoli. Si tratta della folgorante apertura di Qui rido io film con cui Martone prosegue, quasi componendolo e intessendolo in una struttura densa e complessa, il suo tema costante del rapporto tra individuo e comunità, singolarità e pluralità.

Qui si tratta di connettere il romanzo teatrale di una comunità scenica e il romanzo familiare di una dinastia artistica come quella che da Eduardo Scarpetta arriva fino ai tre De Filippo, di cui nel film si racconta anche un romanzo di formazione. Li vediamo bambini Eduardo, Titina e Peppino, crescere tra la polvere di palcoscenico e quell’altra scena che è la famiglia, tutta di attori e gente di teatro che ne plasmerà la genialità artistica. E allo stesso tempo, illuminando il rapporto dialettico e contraddittorio tra tradizione e innovazione, il film inscrive la figura geniale di Eduardo Scarpetta (un Toni Servillo che tocca vette chapliniane nella sua polimorfia attoriale), fulcro di una famiglia di palcoscenico, in una dinamica filmica che prolunga ogni atto di teatro fin dentro la vita che si svolge tra le mura del Palazzo Scarpetta, che viene filmato al pari come spazio scenico pervaso da una comunità teatrale, in cui, anche nel quotidiano ognuno recita il proprio ruolo in commedia. Famiglia quella di Scarpetta traboccante di figli legittimi e illegittimi, di amanti che l’attore mantiene e di cui ama circondarsi esercitando fin nel privato un carisma capocomicale. Famiglia affollata, allargata, intricata e fagocitante, il cui destino teatrale sembra quasi appartenere a un segreto tribale. Segreto che ha fatto sì che da Scarpetta si dipartisse una radicale rivoluzione scenica che mentre da un lato affondava le radici negli atavismi della tradizione commedica, dall’altro guardava per istinto alle innovazioni che provenivano d’oltralpe, come la frenesia in qualche sorta preavaguardistica del vaudeville francese (che Scarpetta adattava in lingua napoletana).

L’invenzione di una maschera senza maschera, Felice Sciosciammocca, con cui lui “uccide” Pulcinella, osando superarne l’implicita “eternità”, è significativa. La forma del romanzo teatrale ricorre in letteratura fin dal Seicento con Le Roman comique di Scarron, La vocazione teatrale di Wilhelm Meister di Goethe, Il Capitan Fracassa di Gautier, e nel cinema con capolavori come Les Enfants du paradis di Carnè, La carrosse d’or di Renoir, Luci della ribalta di Chaplin. Il film di Martone fa venire in mente questa doppia tradizione, e ne è pienamente all’altezza, conservando quel suo sguardo di chiarezza rosselliniana (Rossellini stesso avrebbe voluto girare un film su uno dei primi Pulcinella secenteschi). La vita dei comici viene fatta emergere in tutta la sua forza, nel suo rapporto interno di affiatamento e orchestrazione tra gli attori inscindibile da quello con il pubblico, con cui la genialità di Scarpetta intrattiene un dialogo continuo che lo porta al successo. Così come emerge il modo in cui quella vitalità si riversa nel lavoro delle prove, della costruzione degli effetti comici, nel rigore con cui Scarpetta pretendeva la parte a memoria, anche qui distaccandosi dal lazzo e dall’improvviso della Commedia dell’Arte. L’idea straordinaria del film è l’andare senza soluzione di continuità dietro le quinte di tutto ciò, facendo trascorrere le sequenze dal retroscena alla scena, che rimbalzano nella vita familiare, dove continuano a intrecciarsi romanzo e commedia.

Siamo nella Napoli del primo decennio del Novecento (di cui Martone aveva già raccontato le tensioni utopiche in Capri Revolution, che si svolgevano nell’isola di fronte), ricostruita soprattutto in interni con una tale cura del dettaglio da farci sentire le atmosfere, i sentimenti, le malinconie e le allegrie, quasi gli odori, o i sapori (la scena del pranzo di famiglia con la “spartizione” del ragù secondo porzioni “affettive” da parte di Scarpetta rovescia e riprende le scene dei pranzi di famiglia del cinema di Visconti). Ma anche i suoni, le voci di una Napoli a suo modo insieme tragica e comica, idilliaca e sognante, intessono il film in quel “controcanto” continuo che sono le canzoni immortali della tradizione partenopea, usate anche come segno “anacronico” attingendo a varie epoche, anche recenti di quel repertorio. Una canzone come Indifferentemente torna due volte nel film e i versi iniziali sono significativi: “Tramonta ‘a luna… e nuje, pe’ recitá ll’ùrdema scena, restammo mane e mane, senza tené ‘o curaggio ‘e ce guardá”. In quella Napoli mentre Scarpetta reinventava e innovava una tradizione teatrale si elaboravano i fermenti di un “teatro d’arte” dei Bracco o dei Di Giacomo, che pretendeva di fondare un teatro “popolare” partendo però da motivazioni del tutto letterarie.

Come in Teatro di guerra (con cui questo film intrattiene sotterranei echi, nello scontro tra la libertà di invenzione scenica e convenzioni del teatro ufficiale) avviene qui una specie di sfida tra autenticità di un lavoro d’attore-autore e inautenticità di un approccio sentimentalistico e populista, al fondo retorico. Si comprende come Scarpetta abbia voglia di sfide e decida di misurarsi nella forma della parodia con il massimo rappresentante di quella retorica, Gabriele D’Annunzio: parodierà La figlia di Iorio con un Il figlio di Iorio, in cui lui vestirà abiti femminili e la versificazione sarà in dialetto. Una scommessa che gli costerà cara: un processo per plagio intentatogli dal Vate.

Nella prima parte del film Martone dipana il respiro degli intrecci vita-palcoscenico, il suo fare da padre-padrone sulle tavole del palcoscenico e tra le mura di casa, gli scontri con il figlio Vincenzo (l’unico nato dal rapporto con la moglie Rosa, qui incarnato con ironia e sottile amarezza dal giovane Eduardo Scarpetta, pronipote di sangue di Vincenzo, in un vertiginoso cortocircuito filogenetico), insofferente della tirannia paterna che limita una sua autonomia artistica, e prove ricorrenti di Miseria e nobiltà con la battuta “Vicienzo m’è pate a me” del piccolo Peppeniello, viatico simbolico trasmesso, quasi come battesimo e investitura regale, ai figli introdotti fin da piccoli in compagnia, ma anche l’incontro con il pubblico della stessa commedia, osservata dal punto di vista del retroscena. La maestria di Toni Servillo nel restituirci con la suggestione di una vera e propria evocazione questa pratica di palcoscenico è stupefacente. Così le ombre del fuoriscena si riversano nelle luci della ribalta, trascolorando gli umori e i riflessi della vita privata nel clima “assembleare” del fare teatro. Perché le stratificazioni e le pieghe nascoste del film costituiscono anche il sostrato di un autoritratto che corrisponde alla pratica e alla creazione negli anni sia di Martone che di Servillo.

Ma se Scarpetta è un polo magnetico del film, sono altri due i poli che compongono e intrecciano una triangolazione raccontata attraverso gli sguardi, le relazioni, i comportamenti di questo romanzo teatrale e familiare a un tempo. Anzitutto la presenza costante dei tre De Filippo bambini, il loro vivere i giorni scanditi tra il fascino delle prove, gli esercizi di “ricopiatura” dei testi scarpettiani a casa, i compiti di scuola fatti nel retroscena seduti tra gli attrezzi scenici. La delicatezza e la pertinace voglia di recitare di Titina; l’insubordinazione scatenata di Peppino che, cresciuto nella libertà agreste della campagna e catapultato in una vita di famiglia regolata dall’assoluta dedizione al teatro, adotta tutto il lato mimico della “facies” comica di Scarpetta (come quando imita le smorfie recitative di Scarpetta mentre osserva una serie di suoi ritratti fotografici) ma comincia a covare un “odio” per il padre naturale vivendo tutta l’umiliazione di figlio non legittimato; ma soprattutto lo sguardo acuto, penetrante, assorto con cui il piccolo Eduardo osserva e assorbe nell’anima e nel corpo tutta la grande lezione che gli viene trasmessa e di cui sarà il più significativo e geniale erede e interprete (i primi piani vibranti che gli dedica Martone sono un controcanto intriso di una incomparabile emozione). Terzo polo: il coro femminile, il gineceo di cui Scarpetta si circondava in casa: la moglie Rosa, la nipote Luisa, e poi Nennella De Filippo, e via via tutte le amanti (che Scarpetta, come all’inizio si indovina, convocava in camerino per farsi “cucire un bottone”, segno convenuto per rapidi amplessi), e poi Maria Scarpetta, figlia legittimata che segue le orme di drammaturga. In fondo (complice anche l’apporto alla sceneggiatura di Ippolita di Maio) a questo mondo femminile il film conferisce una forza e una presenza che sembrano sotterraneamente condizionare le pretese accentratrici di Scarpetta. Si compone dunque un “mondo a parte” che si nutre di amore incondizionato per il teatro e di dinamiche intrecciate da “famiglia allargata”.

La famiglia e la compagnia teatrale si specchiano l’una nell’altra raccontando l’unicità di una comunità di affetti e solidarietà, ma anche di rivalità, di gelosie, insofferenze, invidie. Quando Scarpetta, da un palchetto, coglie, durante una rappresentazione di La figlia di Iorio, piena di cupi e misticheggianti orpelli, tutta l’involontaria falsità, l’elemento implicitamente ridicolo di una retorica che ne soffoca la poesia aulica, reagisce ridendo e subito vede l’elemento parodico. Una sequenza magnifica dove alle battute e alle scene dannunziane, si intersecano, con un montaggio immaginario e fulminante, nella sua fantasia, i versi napoletani, le posture comiche, le deformazioni grottesche della parodia che cogliamo allo stato nascente. In questa ambizione risiede tutta l’audacia di un gesto di onnipotenza attoriale, ma anche la lucidità nel cogliere l’occasione di mettere in grottesco la tendenza retorica che già in quegli anni imperava nell’Italia umbertina. Ma una ben orchestrata contestazione fa naufragare miseramente la prima, e Scarpetta facendo calare il sipario, ferito e piegato nella “posa” grottesca di Sciosciammocca si affretta malamente a riguadagnare quella stessa sera il favore del pubblico, dopo aver interrotto la recita. Qui il film, come spesso in Martone, fa proprio un atteggiamento poetico-politico: l’anticonformismo di questa sfida dunque è destinata ad essere ostracizzata dall’intellighenzia ufficiale e ipocrita, e dagli stessi giovani drammaturghi ansiosi di soppiantare l’egemonia scarpettiana. Ma tutto si svolge nella cifra della rappresentazione. L’istinto di attore di Scarpetta fa sì che, nel consacrare la sua dimora “reale” nella villa del Vomero, che chiama con il titolo della sua celebre commedia “La Santarella” e su cui fa scolpire la frase “Qui rido io”, indica una festa d’inaugurazione a cui invita quelli che già sa gli saranno nemici nel processo contro D’Annunzio, e con un coup de théâtre li blandisce, li invita a una gara di poesia dialettale. Ma la china ha già preso la sua direzione. Di Giacomo assumerà la perizia di accusa al processo. A questo punto il film assume una temperatura e una forza intensissima. L’improvviso vissuto di solitudine di Scarpetta emerge in tutta quella “malinconia del comico”, quel dolore del “tramonto” del grande attore, come se ripercorressimo una via crucis (al pari di quella del Calvero/Chaplin di Luci della ribalta) attraverso un gioco di specchi (che punteggiano le immagini del film).

Scarpetta avvolto in tabarro e col cappello calato sugli occhi si aggira in una Napoli notturna che gli appare crudele, ingrata, traditrice. Con una fulminante icasticità Martone (ispirandosi a un disegno di Peppino che raffigura la salma di Petito vestito da Pulcinella, deposta sulle tavole del palcoscenico, con una candela a illuminare il buio del teatro, lui che morì recitando) lo fa allucinatoriamente entrare in un teatro vuoto, dove quel corpo inerte della grande maschera, che muore e rinasce ogni volta che la si interpreta, giace nell’oscurità: lui vi si avvicina, tremante la sua mano solleva la maschera e si specchia. Quel volto sotto la mezza maschera è il suo, ricoperto per metà di biacca. Continua il peregrinare solitario. Passa davanti al Salone Margherita. Salendo le scale della Galleria scopre che Gennaro Pantalena (attore di spicco della sua compagnia) è diventato complice dei nemici, si è venduto a Di Giacomo per interpretare Assunta Spina. Davanti a una locandina che annuncia un “si cercano comparse” per quel dramma commenta: “Fanno come al cinematografo”, in una battuta in cui si racchiudono tutti gli equivoci di quello che sarà il Neorealismo. Entra in teatro e si confonde tra le comparse “prese dalla strada”. Nel retroscena resta da solo e lo cacciano dalle quinte.

Finché Scarpetta non si decide a giocare la carta di farsi difendere da Don Benedetto Croce, che, implicitamente umiliandolo, accetta spiegandogli come la parodia sia l’arte che rovescia nel piccolissimo “l’altissimo” della grande poesia, e che quella di Scarpetta è una parodia malriuscita ma non una contraffazione, come per l’accusa. I primi piani di Servillo fotografano l’incrinatura nella sua anima, ma è costretto ad accettare la chiave di quella difesa. In tribunale non a caso lo raggiunge il piccolo Eduardo, che ha intuito l’occasione per assistere a un’altra magistrale lezione di quel grande attore che è suo padre, e che pure non lo ha mai riconosciuto come erede legittimo. Infatti il tribunale si trasforma in teatro. Scarpetta nell’autodifesa imbastisce un monologo formidabile, si difende sostenendo l’agguato predisposto a bella posta dai suoi rivali, sostiene che la parodia ha la nobiltà di una forma d’arte, fa l’imitazione caricaturale di D’Annunzio, infine legge come una giaculatoria gli esilaranti versi del suo Il figlio di Iorio. Il pubblico dell’aula comincia a ridere, Scarpetta amplifica quella risata fino allo sghignazzo isterico. La camera indietreggia, si va in bianco e nero come all’inizio lumièriano. La cadenza della risata è quella del cavallo di battaglia del comico d’avanspettacolo Maldacea: ‘A risa. Finalmente Scarpetta ora ride lui, e con lui il pubblico riconquistato.

Qui rido io. Regia: Mario Martone; sceneggiatura: Mario Martone, Ippolita di Majo; fotografia: Renato Berta; montaggio: Jacopo Quadri; scenografia: Giancarlo Muselli, Carlo Rescigno; costumi: Ursula Patzak; interpreti: Toni Servillo, Maria Nazionale, Cristiana Dell’Anna, Antonia Truppo, Eduardo Scarpetta, Roberto De Francesco, Lino Musella, Paolo Pierobon, Gianfelice Imparato, Iaia Forte, Roberto Caccioppoli, Greta Esposito, Nello Mascia, Gigio Morra; produzione: Indigo Film, Rai Cinema, Tornasol; origine: Italia, Spagna; durata: 133′; anno: 2021.

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Un commento

  1. Complesso esaustivo e lucido pensamento critico. Complimenti Bruno

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