C’è un incontro chiave nel film. Eduardo Scarpetta, nume del teatro popolare napoletano a cavallo tra Otto e Novecento, è in grande difficoltà perché mandato a processo da D’Annunzio che lo accusa di aver contraffatto la sua tragedia La figlia di Iorio. Per difendersi dall’accusa, sostenuta anche da un manipolo di intellettuali e artisti napoletani difensori del “teatro d’arte”, che usano di fatto la causa per invidie e rivalità, Scarpetta va a chiedere aiuto a Benedetto Croce. Il filosofo ed intellettuale gli risponde sostenendo che la linea da tenere al processo è quella di rivendicare la grande tradizione comica della parodia, distinta dal carattere aulico della tragedia. E che per Il figlio di Iorio di Scarpetta si può al massimo parlare di una brutta parodia ma non di contraffazione e plagio.

La polarità costruita da Croce tra la dimensione del tragico, che in D’Annunzio si intreccia con l’ancestrale e il mitologico, e quella del comico-popolare, permette di capire molte cose di quello che il film ci dice sulle possibili declinazioni dell’intreccio tra teatro e vita. Che è il tema dei temi del teatro, e del cinema che usa il teatro quando vuole parlare proprio di tale intreccio tra scena e vita, personaggi e persone.

Qui rido io esplicita fin dall’inizio tale legame con la messa in scena di Miseria e nobiltà, grande successo di Scarpetta e della maschera di Felice Sciosciammocca. Qui vediamo nell’incrocio rapido di punti di vista, che coinvolgono il dietro le quinte, la scena e la platea, il costituirsi attraverso la regia di un’unità di spazio che rende inidentificabile il confine tra i tre ambienti e le tre prassi (operazione che riprende le recenti regie d’opera televisive di Martone). E questa indiscernibilità riguarda sia la scena sia la vita. La miseria e il prezzo da pagare per riscattarla, anche inventando o negando paternità, passano dalla scena alla vita e viceversa. Sopravvivere può richiedere molto impegno, che la commedia mostra nelle forme del travestimento e delle piroette che il soggetto è costretto a compiere, che implicano sempre una presa di distanza dal carattere doloroso dell’esperienza.

Prima di congedarlo, vedendo Scarpetta sofferente anche per quello che ritiene il tradimento dei giovani intellettuali napoletani nei suoi confronti, Croce aggiunge che uno come lui che sa far ridere di tutto dovrebbe anche saper ridere di ciò che lo riguarda ora da più vicino: il passare del tempo. Cioè dovrebbe essere in grado di prendere le distanze dalle proprie ferite e tener conto che la condizione umana contempla necessariamente avvicendamenti e tramonti. Altrimenti il suo destino rischia di avere una conclusione tragica. Così dicendo Croce sottolinea lo scarto tra la capacità del capocomico di trovare tale distanza in scena e riderne e la sua incapacità nella vita. C’è dunque un modo comico di raccontare la vita e un modo tragico, e questo era chiaro fin dagli antichi greci. La differenza a volte è sottile e la conversione rapida.

Raccontare comicamente la miseria o i figli di padre ignoto non è un’acquisizione pacifica, ed è la grande invenzione del teatro comico popolare italiano, in cui la tradizione napoletana svolge un ruolo insostituibile. Questo racconto contrasta con la grande invenzione della modernità occidentale avvenuta con la Rivoluzione francese (a cui Martone ha dedicato di recente uno spettacolo significativo come Danton), e che ha visto l’emergere sulla scena pubblica della questione sociale, filtrata da uno sguardo empatico e patetico che solo il sangue versato riesce a placare. Le rivoluzioni sono sempre tragiche e la commedia non è mai rivoluzionaria. Ma forse è qualcosa di più: è il racconto di come l’umano si possa liberare dalla pressione del bisogno mettendola in scena nel teatro e nella vita.

Saper ridere della fame come condizione sociale diffusa e generalizzata porta da un lato all’indebolimento dello spirito rivoluzionario, ma dall’altro concede all’umanità un dono prezioso: quello di saper creare una distanza rispetto alla propria esperienza, di non coincidervi del tutto. Saper ridere sana perché trasforma le tragedie come racconto della necessità in commedie come racconto della libertà. Quando non si può ridere significa che tale libertà non ci è concessa e siamo sotto il giogo di una necessità tragica. In questo senso l’“arte di arrangiarsi” è la formula anti-rivoluzionaria con cui la vita preserva se stessa sia dalla morte per fame che dal rischio di uscirne con lo spargimento di sangue.

La commedia è sempre indipendenza dal sangue e dai suoi legami. Per cui i figli di padre ignoto non danno vita alla serie infinta dei “miserabili” e dei “reietti” che molta letteratura ottocentesca ci ha raccontato, ma si trasformano nei “monelli” che attraverso finzioni e mascheramenti si inventano modi per sopravvivere, come il “Vincenzo m’è padre a me” di Miseria e nobiltà. I figli non riconosciuti possono avere anche un’opportunità in più, come gli orfani nelle favole, quella di scegliere il proprio padre, l’orizzonte simbolico all’interno del quale creare il proprio futuro.

È il destino dei fratelli De Filippo, figli mai riconosciuti da Scarpetta, avuti con una delle tante donne del suo gineceo, la nipote della moglie Rosa, che scelgono il teatro come loro destino. E così vediamo, in un momento intenso del film, Eduardo bambino correre e raggiungere il fratello Peppino, prima che esca dal teatro dopo aver litigato col padre rifiutandosi di recitare, e mostrargli il palcoscenico, dicendogli che se vuole essere libero quella è la strada.

E poi c’è un altro incontro importante, quello con D’Annunzio, la figura ingombrante della tradizione culturale italiana del primo Novecento, che aleggia lungo tutto il film. Qui la distanza tra i due caratteri, l’aristocraticismo retorico ed elitario del primo e il tratto popolare del secondo, si manifesta plateale. E il tentativo di Scarpetta di renderselo simpatico, raccontando che nella sua riscrittura parodica si passa dalla “fiamma” del Vate alla “fava” del Capocomico non sortisce alcun effetto.

Con atteggiamento di sufficienza al limite dello sprezzante, D’Annunzio non si espone e si mostra con i suoi adepti, tra i quali le sue amanti, così diverse da quelle di Scarpetta. Per il Vate solo donne magre seducenti che indossano veli neri come tante figure del destino, per il Capocomico invece donne procaci e popolane, che lega a sé ingravidandole e consentendo loro di riscattare la posizione di marginalità sociale. In una famiglia infinitamente estesa, che ruota intorno al perno, nella vita e sulla scena, che è Scarpetta, non c’è spazio né per orgoglio né per vergogna. Ciò che conta è generare figli di cui curarsi indipendentemente da chi siano i padri e unirsi per difendersi dall’invidia degli altri.

Uscire dalla povertà della gioventù concedendosi al re e rimanere incinta (con il figlio riconosciuto dal futuro sposo Scarpetta) o condividere il marito con altre donne, questo è il prezzo che deve pagare Rosa. Ma non è un prezzo particolarmente alto se serve a costruire una comunità familiare caratterizzata da affetti ed interessi. E da questi ultimi che modellano i primi. Tutti intorno al capo, che deve essere capace di difenderla e di tenere questa comunità unita a sé in un corpo unico. Passare da un corpo di donna all’altro, dalla scena alla casa, o fare della casa una vera e propria scena, un teatro come Villa Scarpetta dove mettere in scena recite sociali per tentare di recuperare il consenso degli intellettuali andato smarrito, fanno parte di uno stesso gesto di creazione di un collante emotivo e sociale che tutti nella famiglia riconoscono e difendono ma che alle prime incrinature si sfalda.

C’è un terzo incontro che compie Scarpetta, e non più con due intellettuali a lui coevi, ma con se stesso calato nella maschera di un Pulcinella morto, il cui corpo è disposto in scena. Si tratta di una visione da cui emerge il senso del tempo e della tradizione. E in quella maschera – che l’hybris di Scarpetta pensava di cancellare con il suo Sciosciammocca – si esprime il sentimento di una perennità profonda, che si afferma nella capacità di tenere insieme il pianto e il riso, e di saper ribaltare il primo nel secondo. La vita è perenne solo nella sua capacità di rinascere, di convertire la morte in nuova energia. E questo è possibile solo se sappiamo prendere le distanze dagli intrecci vincolanti delle nostre vite, per sottrarli al loro carattere destinante. È solo qui che la maschera comica è capace di sfuggire alla fissazione e alle ossessioni del carattere tragico.

È solo la capacità della maschera comica di non coincidere con se stessa a poter trasformare tradimenti, miseria, figli non riconosciuti, nei motivi e negli elementi di un gioco teatrale dove si afferma attraverso il riso la relatività dell’umano. Al di là di questo, c’è solo l’assolutezza tragico-melodrammatica in cui fame ed amore finiscono in morte, come nell’Assunta Spina di Salvatore Di Giacomo, prototipo di sceneggiata che cancellerà il comico-popolare di Scarpetta.

Qui rido io è un film di grande forza, dove i temi di Mario Martone, la riflessione sul tragico e il melodrammatico, il teatro come operatore di verità, la riflessione archeologica sulla tradizione culturale italiana, si innestano con il tema del comico-popolare e della sua capacità di costruzione di un racconto alternativo, di cui la maschera comica è la sintesi più mirabile.

Qui rido io. Regia: Mario Martone; sceneggiatura: Mario Martone, Ippolita di Majo; fotografia: Renato Berta; montaggio: Jacopo Quadri; scenografia: Giancarlo Muselli, Carlo Rescigno; costumi: Ursula Patzak; interpreti: Toni Servillo, Maria Nazionale, Cristiana Dell’Anna, Antonia Truppo, Eduardo Scarpetta, Roberto De Francesco, Lino Musella, Paolo Pierobon, Gianfelice Imparato, Iaia Forte, Roberto Caccioppoli, Greta Esposito, Nello Mascia, Gigio Morra; produzione: Indigo Film, Rai Cinema, Tornasol; origine: Italia, Spagna; durata: 133′; anno: 2021.

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