Il problema è sempre quello dell’identità. Nell’esplosione delle forme che il cinema vive, i grandi festival sono un punto fermo, se non altro cronologicamente, per orientarsi sulle strade che si prendono. Cannes non fa eccezione e l’edizione 2017 lo ha ben mostrato, sia pure nell’affollamento di segnali (e di film) che l’ha caratterizzata. Dunque, a che punto è il cinema?
Come sempre il cinema vive nel suo movimento, in un divenire che ne rinnova e ridiscute le forme. Per questo la questione di fondo è una questione identitaria: il cinema ospita in sé lo straniero che lo ibrida, l’impurità che lo fa crescere (già Bazin lo aveva visto). A volte questo straniero è guardato con timore: più che uno xenos, uno straniero interno, col quale si fanno i conti e ci si confronta, è vissuto come barbaros, straniero esterno, agente estraneo. La diatriba su Netflix, che ha infiammato i primi giorni del festival, riflette bene la divisione: bisogna o no che il cinema si mescoli con le altre vie che gli si aprono se non davanti, a lato? Chi vede Netflix (e Amazon) come barbaros pensa di no, chi lo vede come xenos pensa di sì.
La questione investe anche le forme e i temi del cinema: l’ibridazione, per esempio quella che intreccia attenzione documentaria e procedure tipiche della finzione, produce esiti spesso assai incisivi. In questo senso i tre film italiani presenti alla Quinzaine, A ciambra (Carpignano), L’intrusa (Di Costanzo) e Cuori puri (De Paolis), sono esemplari: sanno “vedere” (scavare, mettere a nudo, rivelare) realtà contundenti, siano periferie romane e napoletane o campi nomadi, nel cuore di una finzione perfettamente strutturata. La lezione del cinema alto italiano è passata bene, con una differenza rispetto a settant’anni fa: questo è anche un cinema molto ben scritto, equilibrato, che lascia poco spazio all’improvvisazione e tuttavia molto alla forza dello sguardo. A ciambra pone il problema dell’identità in evoluzione, non soltanto perché il protagonista è un ragazzo costretto a diventare troppo rapidamente adulto, ma anche perché è la stessa comunità nomade alla quale appartiene a essere confrontata con realtà che imporrebbero di cambiare, e rispetto alle quali non c’è da opporre che la memoria delle origini. Anche L’intrusa e Cuori puri pongono fin dal titolo il problema dell’incontro tra diversi e della sua difficoltà.
Un problema per così dire “politico” è però quello della collocazione di questo cinema. Nel concorso principale – che poi è la parte mediaticamente più esposta del festival – film come questi italiani non trovano spazio. Il concorso infatti, quest’anno più deludente di altre edizioni, è il luogo dell’identità: le ibridazioni faticano a entrare perché il cinema vive anche di processi e di prodotti di conferma identitaria. Basterebbe pensare a The Beguiled di Sofia Coppola, film in cui l’identità di gruppo è declinata al femminile pur nel quadro di eventi tutti maschili come quelli legati alla guerra di secessione, lasciata in un fuori campo volto a definire per contrasto la forza di quel microcosmo. Più in generale nel concorso i film che ospitano al proprio interno forme “straniere” non passano. Per quelle bisogna guardare dal lato della Quinzaine o della Semaine de la Critique.
C’è tuttavia un evidente bisogno di uscire dal recinto del già visto: non è un caso che la Palma d’oro sia andata al film di Ruben Östlund che, in un contesto come quello del concorso poco propenso all’innovazione delle forme, ha mostrato una certa ricchezza nordica di soluzioni, fatte di ironia, di sospensioni, di sorprese capaci di evocare in qualche punto il Ferreri degli anni d’oro. Del resto The Square gioca sull’incontro con l’alterità fin dalla costituzione di uno spazio – uno square, appunto – dedicato all’altruismo e alla generosità, dunque al riconoscimento dell’altro, quell’altro che però viene sostanzialmente disconosciuto dal protagonista, direttore snob di un museo di arte contemporanea. Anche qui tutto si gioca sulla collisione/scintilla tra situazioni sideralmente lontane, tra upper class e sobborghi, ma la differenza, rispetto ai film italiani, è che qui le lontananze restano tali e la diversità non si sublima in incontro. Resta solo l’inquietudine del vivere tra la realtà e la sua messinscena, nel regno di un’apparenza continua, ad abitare il protagonista fin nel midollo. E’ una società, quella descritta dal film, divenuta disumana, benché si ammanti di nobili sentimenti ai quali però non sa aderire davvero. E ridotta a (ri)scoprire l’altro solo quando questo si fa spettacolo o minacciosa presenza.
Sull’altro piatto della bilancia, il movimento delineato da un film come Le redoutable di Michel Hazanavicius è opposto: se The Square prova, riuscendoci almeno a tratti, a disegnare la differenza sia pur in un contesto stringente come quello del film “da festival”, Le redoutable gioca con l’immagine di Godard, cioè con l’autore più difforme, più irriducibile a una forma, di tutta la storia del cinema, per farne un ritrattino ludico, un pastiche fatto di pseudocitazioni che finisce sulle note di Azzurro di Celentano. E il film si riduce a un’operazione postmoderna che strizza l’occhio al pubblico, per mettere un sigillo da commedia al ’68 di Godard. Cioè: dell’autore che aveva teorizzato l’idea che il cinema è juste une image Hazanavicious fa une image juste. Sommo gioco, somma vendetta.
Ma se il problema dell’identità messa in questione è quello della libertà del cinema di spingersi sulle vie della ricerca, i due film che probabilmente hanno reso al meglio questo tentativo dal punto di vista delle forme sono anche quelli che hanno regalato i due momenti più poetici del festival. Da un lato 24 frames, film postumo di Abbas Kiarostami, che si costruisce nell’intersezione tra cinema e fotografia: la fotografia come fissazione dello stupore nell’istante, il cinema come irruzione dell’esterno, dell’imprevisto, del provvisorio in ciò che pareva definitivo, oppure del definitivo, dell’eterno, in ciò che pareva istantaneo. Dall’altro lato Visages/villages di JR e Agnès Varda, un autore trentatreenne e un’autrice ottantottenne. Un fotografo e una cineasta/fotografa, in un film on the road che si sviluppa nel viaggio dei due attraverso la Francia a bordo di un camion-camera fotografica. Viaggio nello spazio, ma anche nel tempo, restituito dalla concrezione di ricordi, immagini, pezzi di cinema che chiamano il cinema (la corsa in carrozzina nelle sale del Louvre che echeggia Bande à part di Godard). Tutto si mescola, tutto si muove: non c’è un medium che sovrasta l’altro. Tutto serve a riconfigurare la realtà nella precarietà delle immagini. Come quel gigantesco occhio di Agnès attaccato sulla fiancata di un vagone ferroviario. L’occhio mobile di un cinema in perenne movimento.
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.