Ad un certo punto un impassibile stalliere ricoperto da una tunica bianca entra sul palcoscenico, tirando per le briglie un cavallo. Un cavallo vero e proprio, che sbuffa, che sbatte con gli zoccoli potenti sul legno del palco. La bestia è apparsa. È il momento in assoluto più forte di Giulio Cesare. Pezzi staccati, con la regia di Romeo Castellucci, in scena al Teatro Auditorium dell’Università della Calabria (TAU) lo scorso marzo (un adattamento dalla storica prima rappresentazione, del 1997, Giulio Cesare. Tratto da Shakespeare e dagli storici latini).
Un cavallo, un animale, una bestia. Il titolo è particolarmente suggestivo. I pezzi staccati sono quelli di cui parla Jacques-Alain Miller in un commento al Seminario XXIII di Jaques Lacan, quello dedicato a James Joyce. In questo Seminario Lacan prende congedo definitivamente dal linguaggio, dal significato, dal senso. Joyce è l’artista che porta il linguaggio alla sua condizione più evidente e rimossa, quella tutta materiale di un rumore, o di una macchia di inchiostro su un foglio di carta. Il linguaggio non c’è più. Questo vuol dire che non c’è più nemmeno il significante (che non è che l’altra faccia del significato, non c’è uno senza l’altro). E cosa c’è dopo, o prima, del linguaggio? C’è la bestia.
Il pubblico è seduto per terra, la prima fila a pochi centimetri dagli zoccoli del cavallo, visibilmente nervoso, in alcuni momenti trattenuto a stento dallo stalliere. La sensazione di paura è palpabile. In uno spettacolo centrato sui bordi della parola, prima e dopo la parola (i gesti di Cesare – Gianni Plazzi – che mima la sua uccisione, e le parole faticosissime di Marcantonio, interpretato da un attore laringectomizzato, Maurizio Cerasoli), il cavallo è l’oltre del linguaggio.
Il cavallo non significa l’animalità, la forza primordiale, il senso originario. Niente di tutto questo, il cavallo non è un “cavallo” (Equus ferus caballus, mammifero appartenente all’ordine dei Perissodactyla, sottordine degli Hippomorpha, famiglia Equidae, genere Equus). Il cavallo è un cavallo, è una bestia. Per questo il pubblico è spaventato, non perché il cavallo è un animale pericoloso (e quegli zoccoli ce lo ricordano bene), ma perché è una bestia. E la bestia spaventa, semplicemente perché è una bestia. Sul palco del TAU all’improvviso è entrata in scena l’animalità radicale della bestia. Senza parole, commenti, sensi o interpretazioni. E di colpo il linguaggio, quell’infinito brusio che accompagna le nostre esistenze di animali parlanti, è cessato.
Quando l’animale è soltanto un animale, è questo che succede. Poteva essere una lucertola, e si avrebbe avuto lo stesso effetto. Ma sarebbe bastato anche un ragno. La bestia è la vita, è l’impensabile, l’indicibile, il ridicolo delle nostre parole, l’estraneità assoluta. Il grande Cesare con tutte le sue parole non è nulla di fronte al cavallo. Bisogna ribadirlo, perché con gli animali c’è sempre la tentazione di farli parlare, loro malgrado. E così li trasformiamo in allegorie, gli mettiamo in testa pensieri e sensazioni, li “umanizziamo”. Quel cavallo, invece, non aveva alcun bisogno delle nostre parole. Per questo fa paura. La bestia porta via i nostri pensieri, e ci mostra, come in Pezzi staccati, il corpo del linguaggio. Non il corpo significativo, quello del senso, del linguaggio. Il corpo che è soltanto corpo, il corpo che non è altro che una cosa, un pezzo di materia.
Un effetto analogo l’ottiene l’artista Gianfranco Baruchello con un suo recente progetto. Una pecora, una sagoma di compensato, e la bestia appare, come nella fotografia qui sotto. La pecora è poggiata su un’insegna autostradale, sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, l’A3. Il patto con l’artista è che, quando si compra una pecora, l’acquirente si impegna a portarla in giro. Questa della foto, la numero 009/100, è arrivata fino a Cosenza, per poi tornare a Roma. Non è una “vera” pecora, eppure l’effetto che ha avuto è molto vicino a quello suscitato dal “vero” cavallo di Castellucci. Le persone si avvicinano, chiedono notizie (nel caso di questa immagine mi hanno chiesto se ero autorizzato a riprendere un “bene” dell’autostrada), scattano foto, si presentano, si preoccupano.
Se con il cavallo la paura era più evidente, la pecora suscita però inquietudine, disagio, preoccupazione. «È una protesta contro l’uso di mangiare agnelli a Pasqua?» mi ha chiesto un benzinaio nella stazione di servizio di Tarsia, a nord di Cosenza. Volevo portarla anche al TAU, sul palco di Pezzi staccati: «Non è possibile portarla sul palco» mi hanno detto alla biglietteria, senza troppi commenti, «c’è un cavallo vero». Un cavallo e una pecora, che incontro sarebbe stato? Chi avrebbe avuto paura della pecora: il cavallo, oppure il pubblico? La bestia, vera o finta, rimane una bestia. La bestia azzera la differenza fra il vero e il falso. Appunto, la bestia ci porta oltre il linguaggio.
La bestia sconcerta e turba. In un’opera straordinaria, Noia (2009), di Mauro Folci, il leone è un “vero” leone, ripreso in un video interminabile fermo ad un tavolo, di fronte ad un uomo. I due viventi si guardano, e non succede niente.
Se si confronta questo incrocio di sguardi con quello celeberrimo di Marina Abramović, The Artist Is Present (2012), è evidente il salto metafisico fra i due incontri. L’incontro fra umani è al livello del linguaggio non verbale, dei corpi, delle emozioni. L’incontro con il leone è su un livello completamente diverso, è quello che Gilles Deleuze e Félix Guattari chiamavano “concatenamento macchinico”.
L’incontro impossibile – e questi sono gli unici incontri reali e produttivi – fra entità che non hanno nulla in comune. Come quello fra due pezzi di macchine, appunto, che casualmente si “toccano” in una discarica. La vita è un concatenamento di questo tipo. E quando vediamo una bestia, la vita si mostra e ci assale. Ma non la vita “naturale”, la vita bella e giusta dell’ecologia, la vita addomesticata e umanizzata.
La bestia è la vita che non sa nulla di zoologia, di psicologia, di natura. La bestia è così forte che basta la sua sagoma, per farci paura. In questo senso, o l’arte torna ad essere bestiale, oppure l’arte resterà faccenda da mercanti, case d’asta, musei e università. L’arte deve fare paura.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Carboni, Castelvecchi, Roma 2010.
J.-A. Miller, Pezzi staccati. Introduzione al seminario XXIII. «Il sinthomo», a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2006.