L’imputabilità dell’azione. La responsabilità di chi la compie. Le accuse, e la violenza che ne consegue. Soprattutto la violenza. La morsa è infernale, il dispositivo inesorabile, nessuno sembra esserne escluso. E l’azione fondativa che orienta la storia e precede l’inizio del film è tra le più brutali: una ragazza, minorenne, stuprata mentre muore, mentre da sola cammina per strada, in una cittadina anonima del Missouri, Ebbing.

La madre, sette mesi dopo, decide di occupare lo spazio di tre cartelloni pubblicitari abbandonati, riempiendoli con tre manifesti che lanciano un’accusa: il colpevole di quella ragazza stuprata non è stato ancora trovato, e sullo sceriffo Bill Willoughby ricadono le responsabilità maggiori. È un atto d’accusa alla comunità e a chi ne rappresenta (o così dovrebbe) l’ordine e la legge. Ma la comunità insorge e anche la polizia, brutale, razzista, omofoba (soprattutto nel vicesceriffo Dixon). Quei tre manifesti dichiarano e assegnano responsabilità: esprimono, attraverso il mezzo cardine della società dei consumi, la pubblicità, non desideri ma colpe.

Le colpe che accedono a visibilità e si manifestano nei consumi, nella pubblicità: è questa la grande intuizione drammaturgica del film. Pubblicità e legge, mercato e colpa: i primi diventano letteralmente i mezzi di manifestazione delle seconde, le forme in cui la colpevolizzazione diffusa viene pubblicizzata. L’ufficio vendite degli spazi pubblicitari e quello dello sceriffo sono l’uno di fronte all’altro, separati da una strada, come in un villaggio del West. La pubblicità e la legge, il consumo e l’ordine: allo stesso tempo coalescenti e confliggenti.

 

Si pubblicizzano le colpe, non i desideri. Che sono assenti: nessuno dei personaggi del film sembra desiderare nulla, al massimo una fuga, un intervallo, in una realtà colpevole e segnata dalla morte. L’intervallo felice che lo sceriffo e la moglie si concedono durante una gita, mentre lasciano giocare in riva al lago le due figlie piccole. Sarà l’ultimo momento gioioso della loro vita, perché Willoughby, malato e destinato a breve a morire, si ucciderà con un colpo di pistola la sera stessa, in prossimità della stalla, vicino ai cavalli. E lascerà una lettera (non solo a sua moglie) in cui dirà di aver voluto interrompere la sua vita in quel momento gioioso, evitando a se stesso e agli altri il grande dolore che sarebbe arrivato.

Le lettere dello sceriffo, che giungeranno post-mortem, saranno tra le poche cose a liberare i personaggi dal loro senso di colpa. Non è stata responsabilità della madre, Mildred Hayes, se lo sceriffo si è suicidato, e la lettera, oltre a confermarlo, conferma anche la buona fede e il dispiacere di lui per tutto ciò che è accaduto alla figlia di lei. L’ostinazione della donna sconfina nell’ossessività. E sembra rispondere più al tentativo di liberazione da un senso di colpa che al sentimento di giustizia (Mildred non è la madre di Changeling di Eastwood). E su tutto si proietta una violenza diffusa. La violenza dei rapporti all’interno della famiglia. La violenza dell’ex-marito nei confronti della donna, ma anche quella reciproca tra madre e figli (che non esitano a chiamarla “troia”). E tutte culminano nelle battute che si scambiano madre e figlia prima dello stupro e della morte di quest’ultima. La madre non le dà in prestito la macchina, e la figlia rabbiosa risponde “augurandosi” uno stupro, su cui la madre rilancia. Colpevolizzazioni reciproche, rabbia diffusa, non lasciano spazio ad altro che ad accuse e recriminazioni.

E Dixon, che vive con una madre abbrutita, non esita dopo il suicidio di Willoughby ad andare dal ragazzo che ha affittato i cartelloni pubblicitari a Mildred per picchiarlo e scaraventarlo, come in un western, giù dalla finestra. E anche a Dixon arriverà una lettera dello sceriffo, speditagli poco prima di morire, in cui gli dice che sarebbe un buon poliziotto se non si facesse guidare dall’odio, che acceca e fa perdere lucidità, ma dall’amore. L’ironia che potrebbe trasparire dall’uso del termine è annullata dal fatto che sono parole che vengono dall’“aldilà” a riportare, in un mondo segnato da odio e rabbia, il sentimento di una distanza amorosa, che è anche partecipazione al destino fragile, e inevitabilmente inadempiente, degli uomini.

Le lettere dello sceriffo allentano, in primis, l’imputazione delle azioni. Alleggeriscono il vincolo tra l’azione e il soggetto che la compie, e tendono ad interrompere il circuito delle ritorsioni. Nessuno a Ebbing è fino in fondo colpevole, se non per debolezza, insufficienza, piccolezza della natura umana, che in un contesto limitato e chiuso come la cittadina del Missouri non trova aria sufficiente per crescere, e trasforma tutto questo in odio.

Perché, in un ribaltamento non inedito per l’immaginario americano, la natura toglie vita. Isola, dunque riduce, o elude del tutto, la dimensione della socialità e l’energia vitale che l’accompagna. Solo quando si fa paesaggio, la natura riposa contemplativamente in se stessa, segnata da un sentimento di bellezza come accordo dell’uomo con il mondo. Ma la natura di Ebbing non si fa mai paesaggio. Il verde ci viene sempre restituito attraverso punti di vista limitati, circoscritti e ripetuti. Mai accordo contemplativo con la natura. Solo contrasto, rivalità, odio tra gli uomini.

Un odio che cresce esponenzialmente: i tre manifesti saranno bruciati, e la signora Hayes incendierà di notte, per ritorsione, l’ufficio di polizia. Dixon rimarrà ferito nell’incendio, e Mildred sarà scagionata da un nano che le darà l’alibi. Non sembra esserci via d’uscita in questa cittadina dove dominano gli interni, luoghi in cui gli uomini si muovono rabbiosamente come in gabbie: la casa di lei, l’ufficio di polizia, l’agenzia pubblicitaria.

O forse, una via d’uscita c’è, ed emerge a tratti, interna alla costruzione drammaturgica stessa, inclusa in personaggi che non sono mai fino in fondo cattivi, che non si esauriscono mai nel loro odio. Tutti sono innocenti e colpevoli allo stesso tempo, e dunque il tentativo di emendare la comunità attraverso il sacrificio viene interrotto.

Nel finale Mildred e Dixon eviteranno di prendere uno stupratore quale che sia, per emendare la coscienza e trovare un colpevole. Il film evita di prendere una pendenza tragico-sacrificale (e dunque al fondo rassicurativa e stabilizzante), orientandosi verso una “commedia nera”. Dove, se tutti sono colpevoli nessuno in fondo lo è, e nessuno può tragicamente emendare il sentimento di colpevolezza accusando o uccidendo l’altro.

E allora, come allentare la morsa di violenza senza che precipiti nel sangue? Senza capro espiatorio purificatore? Può accadere solo attraverso una presa di distanza “umoristica” dalle proprie azioni e dalle proprie responsabilità, che non sono mai totali. È un tratto tipico della tradizione inglese, a cui il regista appartiene, e che definisce uno scarto evidente dal tratto radicalmente puritano di quella statunitense.

La colpevolezza diffusa non è deresponsabilizzazione, ma indica – come sempre quando si usa la forma commedia, sia pur nera – che la responsabilità è condivisa, è sociale. E riguarda l’incapacità di una comunità, e dei soggetti che la abitano, di riscattare la propria minorità. Ma questa incapacità di riscatto non può significare affondare totalmente nel proprio sentimento di impotenza, alimentando rabbia e risentimento. La china va invertita attraverso una presa di distanza dal proprio agire, uno sguardo altro su se stessi e sul mondo. Questo emergerà in forma anomala, l’abbiamo accennato, nelle lettere dello sceriffo suicida che parlerà di amore, e nei commenti della diciannovenne nuova fidanzata dell’ex-marito di Mildred, che dice di aver letto che “la rabbia genera rabbia”. Parole che nel finale modificheranno in forma decisiva l’ordine della prassi, la decisione che sembrano aver preso i due personaggi più rabbiosi e violenti del film, Mildred e Dixon, quando di fatto rinunciano a colpire uno stupratore qualsiasi.

La black comedy, che orienta la direzione del film ed esplicita una delle possibili vie d’uscita all’imputazione delle azioni, e delle colpe, fa emergere qualcosa in più che appartiene alla struttura teatrale dell’opera (è dal teatro che proviene il regista), e che significa in definitiva una cosa sola: nulla accade nel film, di cui non si facciano carico, mediante parole ed azioni, i personaggi, e che non passi attraverso loro. Nessun gioco del regista alle loro spalle: da dove la centralità della drammaturgia e dell’attore in un cinema costruito sui personaggi e le loro azioni.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri fa emergere dunque in una storia radicalmente americana, e non solo per ambientazione, una via d’uscita inglese (diversa anche da quella italiana, fondata su maschere), che ritrova nell’umorismo, sia pur nero, la chiave per sottrarre l’azione alla sua adesione ad un soggetto colpevole e alla ricorsività delle vendette. In questo modo emerge la possibilità, e per molti versi la necessità, di inscrivere una distanza tra soggetto e prassi, a partire da incontri imprevedibili, come quelli con la voce, le parole e lettere di un morto.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Capitalismo come religione, il melangolo, Genova 2013.
G. Agamben, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, Bollati Boringhieri, Torino 2017.

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