Siamo immersi in una esperienza inedita. Un fenomeno pandemico ha colpito tutto il mondo costringendo a ripensare ogni dimensione dell’esistenza di fronte a una condizione di grande rischio per la vita stessa. In questa situazione, i mezzi di comunicazione, che avrebbero dovuto fornire indicazioni utili, offrire uno svago, contenere la paura, sono stati colti impreparati. In un cortocircuito dell’informazione, nel cuore di un processo in cui reale, mediale e virtuale si riflettono l’uno nell’altro come in un gioco di specchi, la comunicazione mediata ha procurato disagio e una generale dissociazione. Da una parte, i palinsesti si sono concentrati sul virus, sulle cifre dei contagi, sui pareri discordanti della scienza, sui morti trasportati dai mezzi militari, sul Papa che prega come corpo solo in un’immensa piazza. Dall’altra, format già programmati hanno continuato a trasmettere le immagini dello splendore e della gioia della vita mondana, mentre stava sfumando.

Insieme alla paura per la vita, si sono così riaffacciate paure vicine a quelle che Ernesto De Martino aveva indicato come tipiche della nostra epoca: la paura di “perdere il mondo”, il “paradiso” rassicurante di “partecipazioni vissute” e “progetti comunitari”, di fronte a un isolamento dei corpi che ne ha riportato in luce la crisi; la paura di perdere l’“energia che sospinge verso la scienza”, quand’essa sembra soggiogare la vita; la paura di “perdersi nel mondo”, senza fiducia in un altro mondo possibile. Un poco come il pastore calabrese di cui narra l’antropologo – ingabbiato e angosciato da quell’auto che lo allontanava dal Campanile di Marcellinara –, ciascuno di noi, rintanato e spaventato dal virus, si è trovato a fare i conti con una profonda malinconia. Una malinconia in cui, prendendo in prestito le parole di Eduardo Lourenço, la sensazione di vita sottratta al futuro, asfissiata da un presente privo di dimensioni, lascia prevalere un’angoscia indistinta. Ma, in pochi giorni, senza avere avuto nemmeno il tempo di elaborare lo spaesamento, è apparsa una lieve cura dell’anima: la malinconia è stata messa alla porta e si è intravvista la speranza. Il futuro è tornato ad affacciarsi nelle case, lasciando solo un poco di mestizia a sostegno di un’emotività necessaria.

È la pubblicità a offrire riparo al cuore. In men che non si dica, la macchina dei sogni consumistici pesca dal suo cilindro la più classica delle passioni, per farne un grande strumento di ricentratura dell’io. Con brevi spot, con lo scopo di riportare lo spettatore disorientato sulla via di nuove attese, ri-media l’antica panacea: la nostalgia. Quel che siamo, che siamo stati fino al giorno prima, che non sembrava nemmeno troppo attraente, si coniuga al passato e diventa oggetto di un ricordo struggente, lasciando emergere una nuova prospettiva: la vita mondana tornerà, e forse saremo migliori.

Con questo spirito, la pubblicità si mette al servizio della quarantena e della ripresa. Ogni spot si dedica a sostenere lo stare a casa, la scuola a distanza, a difendere i lavoratori in prima linea, a celebrare la famiglia, le città d’arte, i parchi, e tutti i più alti valori. In sequenze di pochi minuti, quel mondo che sembrava imbruttito, inquinato, pieno di nemici, appare verde, pulito, pieno di amici. Complice il virus, la pubblicità fa sfumare ogni differenza sociale e regala all’Italia il presente appena sospeso nella forma di una inedita epoca d’oro. Un’improvvisa, nuova belle époque.

Gli spot che si possono far rientrare in questo genere sono numerosi. Sono spot emozionali che rammentano la solidità delle aziende (come Skoda, Nike, Ikea, Unipol Sai, Molisana, Coca Cola, Corriere della Sera) per consolidarne l’immagine e preservarne il rapporto con i clienti, ma anche per sottolinearne, con la veste di pubblicità progresso, la capacità di fornire aiuti concreti. Tutti insieme, con la nostalgia e la memoria, cercano quel passato di battaglie e fatiche superate, di sfide vinte con la storia, per aiutare a credere che la vita del paese ripartirà.

Uno dei primi a comparire, nella fase più drammatica dell’emergenza, è lo spot della Mazda. Dopo un incipit che, sulle orme di Magritte, recita “questo non è proprio uno spot, ma un messaggio di speranza”, il ricordo di un passato indicibile, al limite dello shock, irrompe a sostegno di un presente inimmaginabile. È quello di Hiroshima e della bomba atomica. Ma anche del Giappone, della sua capacità di rinascere e di questa casa automobilistica, che durante l’emergenza è stata tra i protagonisti della ricostruzione. In poche scene, Mazda compie una analogia con la catastrofe e vi risale per rammentare la forza di un corpo sociale straordinario, capace di risorgere dal peggiore degli incubi. La memoria torna al punto zero: non cerca i torti subiti o una storia da colmare o riscattare, ma i prodromi della ricostruzione, i progetti allora immaginati e realizzati, il progresso di una nazione. Il ricordo nostalgico di quella forza singolare regala una confortante profezia: si tornerà a vivere (e a guidare), ed è certo, la storia di Hiroshima lo testimonia.

Non stupisca l’idea che il vascello capace di portare da Hiroshima la fiducia nel futuro sia identificabile in quella emozione della memoria che assume i connotati della nostalgia. Attraverso il sentimento nostalgico, l’identità riesce a rivedere anche il passato più doloroso, fino a recuperare i propri punti di forza e a farne gli elementi per innescare una nuova vitalità. Per molti versi, la nostalgia è l’aiutante che la memoria predilige quando ha bisogno di energie per l’elaborazione del trauma.

Ma la nostalgia non è solo un supporto alla rielaborazione del rimosso, agisce anche su altri piani. Intanto, pervade il corpo sociale ogni qualvolta esso percepisca un “allontanamento” dai propri universi di senso – lavoro, amicizia, libertà, famiglia, paese. E fornisce una compensazione, una strada per il riavvicinamento; a volte questa si traduce in una operazione di ripristino del passato, altre volte in una occasione per riflettere sul corso di quel passato e sulle premesse del futuro iscritte in esso. In più, la nostalgia è un collettore di sogni ben noto all’industria culturale.

Non sorprende che al momento del Covid-19 le aziende la recuperino per metterla al servizio della propria immagine. Così brand come Rummo, o Fiat offrono la rievocazione della loro storia e della loro sapienza aziendale per celebrare un grande paese; o per proiettarla nel futuro dell’Italia, come Poltronesofà; o, ancora, per connetterla a un presente di coraggio ed energia, come Nike e Ikea o come Barilla, che lega la possibilità di intravedere il futuro a un presente di cura ed efficienza, al limite dell’utopia.

Tra questi spot ve ne sono due che possiamo considerare come esempi di sguardi nostalgici differenti: quelli della Fiat e della Barilla. Nel primo, il vascello nostalgico si mostra con il suo classico abito vintage e, attraverso la voce di Francis Ford Coppola, simbolo del successo cinematografico, guida lo spettatore in un viaggio a ritroso nel passato dell’Italia e della Fiat. Come Virgilio con Dante, Coppola accompagna a riattraversare i momenti più drammatici, infernali, della storia italiana, la guerra, l’emigrazione, il terremoto, e ricorda come il paese e la sua importante industria li abbiano affrontati e superati, insieme.

Il messaggio, ideato in chiave epistolare nel canone tipico dell’algia della lontananza, va a cercare nella memoria un oggetto culturale come la Fiat 500 e ne fa l’emblema dei valori di una nazione. Li sottolinea nei volti degli anziani, nella stretta di mano tra un nonno e un nipotino, nella retorica di una Italia unita dal tricolore. Da una retrospettiva di famiglia, il vintage mood recupera la grande narrazione del progresso e l’epidemia contribuisce a riscriverla. Il ricordo di come l’Italia è già uscita dalle sue crisi, da “Little Italy a Big Italy”, suggerisce che ce la farà di nuovo. Per quanto, nella logica edulcorante del messaggio pubblicitario, restino in ombra tutti i mondi che, diversamente da quello della Fiat, non hanno vinto alcuna sfida, questo salto nostalgico nel passato vuole essere un serbatoio di indicazioni per agire nel presente.

L’idea che l’Italia sia un grande paese torna anche nello spot della Barilla. Qui la nostalgia non si rivolge alla forza avuta in passato, ma si sofferma sulle condizioni che possono consentire l’uscita dalla crisi. La possibilità di ripartire è vincolata alla capacità di resistere adesso; di attuare le misure sanitarie adeguate nella catena alimentare; di svolgere adeguatamente le cure, il grande mito del momento ma anche il grande problema (del servizio pubblico nazionale) che deve trovare compensazione nella capacità di resistenza di medici e infermieri. È l’Italia di queste ore a commuovere, non quella che ha resistito in passato; ed è al coraggio di oggi che Barilla guarda per lanciare il suo messaggio di speranza.

Scorrono le immagini di chi lavora in prima linea, con tutta la suggestione dell’immaginario eroico suscitato dal virus; dei monumenti del “paese che ancora siamo”; lo ricorda quella colonna sonora ideata negli anni novanta, ancora attuale; lo testimonia la voce di Sophia Loren, icona di un successo e di una bellezza che non tramontano. E diventa chiaro, in maniera struggente, che la forza sta nelle energie che si hanno a disposizione nel presente.

Ma se il presente è la condizione di possibilità del futuro, è a sua volta la sfuggente soglia di un tempo afferrabile soltanto al passato. Oggi, in definitiva, la pandemia sta mostrando tutti i limiti della modernità. Metterlo in primo piano non può non condurre a riflettere sulle contraddizioni che hanno portato fin qui e che incombono, ancora.

Riferimenti bibliografici
S. Boym, Ipocondria del cuore. Nostalgia storia e memoria, in F. Modrzejwski, M. Sznajderman, Nostalgia, Mondadori, Milano 2003.
E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977.
E. Lourenço, Mitologia della saudade, Orientexpress, Napoli 2006.

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