Da un lato dello spazio un baule pieno di costumi di scena, una porta d’ingresso con le lucette da varietà, un uomo seduto di spalle vestito di bianco che fuma. Dall’altro lato la cattedra tribunalizia di un giudice. Si tratta di un immaginario “processo” a uno dei più grandi attori-autori del Novecento, un uomo che racchiude in sé tutta la teatralità verace di Napoli, incarnandola nel suo volto sagomato, con tratti quasi arabi, come scolpito da Vincenzo Gemito, e nella sua gestualità insieme epica e buffonesca, come nella sua voce modulata sui registri, i sottotoni e i sovra-toni. È la visione entro cui si gioca Processo a Viviani (scritto e diretto da Corrado Ardone e andato in scena al Napoli Teatro Festival Italia): una contrapposizione scenica entro cui si susseguono le accuse che il regime fascista cominciò ad orchestrare, sotto forma di ostracismo contro un teatro che scarnificava e squarciava, mettendola a nudo, tutta la verità drammatica di un popolo come quello napoletano, il cui vissuto quotidiano era immerso nella miseria, nella vita precaria di strada, in un quotidiano sospeso tra desolazione, voglia di riscatto, ribellismo ma anche arte disperata e inventiva del sopravvivere.

Un vissuto reale che il regime doveva assolutamente negare e nascondere, soprattutto tenendo conto dello straordinario successo che negli anni la compagnia Viviani era andata conquistando. Quel teatro dove un intero tessuto popolare si rispecchiava, si riconosceva. Un mondo di ultimi che Viviani si ostinava a mettere in scena con colori, luci e ombre caravaggesche, un dialetto icastico e sferzante che diventava armonia/disarmonia di lingua, lingua che diventava musica nello scivolare delle vicende direttamente nelle canzoni che (come nel modo “epico” della scena brechtiana) si sciolgono in “songs” esemplificative, integrate nella tela drammaturgica.

Viviani si autodefiniva “comm’a nu pittore ca pitta nu paesaggio, ma nun sape pittà”. Così come la sua scrittura nasce da un genio che si risveglia dentro un analfabetismo, da cui “Papiluccio” (il nomignolo della sua infanzia) volle riscattarsi quando, scugnizzo cresciuto nel mondo del teatro popolare, delle guarrattelle, dei piccoli circhi, del varietà, dice di sé stesso che, ragazzino sempre sfrenato nei giochi di strada, “a durice anne, a trirece, cu’a famma e cu ‘o ccapì” prese il sillabario e imparò a leggere e a scrivere. Diventando autore-attore e compositore “a orecchio” di musiche straordinarie, che si fanno “parola cantata”.

Quella di Raffaele Viviani (di cui ricorre il settantesimo dalla scomparsa) è una drammaturgia singolarissima d’attore e nello stesso tempo una polifonia, lo specchio di una città-mondo come Napoli, città porosa, riversata su un agglomerato dove l’interno si effonde e si compenetra con e sull’esterno, come squarciata nella sua miseria, nella sua umanità, nel dionisiaco, nel festivo, nella labirintica realtà dei vicoli, nella musicalità intrinseca e incarnata nelle voci. Nel testo Neapel scritto nel 1924 a Capri da Walter Benjamin e Asja Lacis, durante il loro soggiorno napoletano, sembra che la temperatura della teatralità di Viviani possa riflettersi, nel suo modo ostensivo:

Porosità significa non solo, o non tanto, l’indolenza meridionale nell’operare, bensì piuttosto, e soprattutto, l’eterna passione per l’improvvisare. All’improvvisazione deve essere in ogni modo riservato lo spazio, deve essere sempre garantita l’occasione. I fabbricati sono usati come teatri popolari permanenti, le cui parti si dividono in una miriade simultanea di palchi animati: balconi, androni, pianerottoli, finestre, scaloni, gli stessi tetti: tutto è insieme palcoscenico e platea (Benjamin, Lacis 2020, p.20).

Lo squarcio icastico, la miscela accesa e violenta che fa esplodere insieme in scena il melodrammatico, il comico e il tragico, costituiscono per Viviani un teatro a cielo aperto. Basterebbero i titoli, e dunque gli ambienti, delle sue opere (soprattutto le prime, scritte tra il 1917 e il 1919: O Vico, Via Toledo di notte, Piazza Ferrovia, via Partenope, Scalo Marittimo, Porta Capuana, Piazza Municipio, Borgo Sant’Antonio) a comporre una topografia dell’anima urbana e del fluviale scorrere dei corpi e degli eventi minuti, dei fatti di cronaca a volte paradossali, o grotteschi o tragicomici di un intero tessuto urbano. Tutto scorre nelle piazze, nei budelli, nei bassi, nei momenti festivi, nel dedalo di Napoli.

Il coraggio di mettere a nudo la carne di un popolo nelle sue piaghe come nelle sue esuberanze, nei suoi dolori come nei suoi giubili, secondo un forte sentimento (anche allucinatorio) del reale, anticipa di decenni il Neorealismo. Ma quando il suo teatro, dall’avvento del fascismo in poi, assume una forte carica di rappresentazione sociale, corrosiva e senza remore nella denuncia dell’esistenza miserabile, delle condizioni di degrado, dell’humus sottoproletario, stagliandosi sulla scena con una potenza teatrale unica e sferzante, ecco che Viviani diviene scomodo, inviso al potere, irriso, boicottato, comincia una sorda persecuzione. Nel 1937 il teatro dialettale non riceve più sussidi. L’attore-autore viene costretto via via a restare inattivo.

La lotta mi ha reso lottatore. Dicendo lotta intendo parlare, si capisce, non di quella greco romana che fa bene ai muscoli e stimola l’appetito, ma di quella sorda, quotidiana, spietata, implacabile che ogni giorno si è costretti a sostenere. E la mia vita fu tutta una lotta: lotta per il passato, lotta per il presente, lotta per l’avvenire. Con chi lotto? Non col pubblico, il quale anzi facilmente si fa mettere con le spalle al tappeto, ma con i mille elementi che sono nell’anticamera, prima di giungere al pubblico. Parlo del repertorio, delle imprese, dei trusts, dei trusts soprattutto. Oggi come ieri, l’uomo di teatro è in lotta continua coll’accaparramento dei teatri di tutta Italia, i quali sono tenuti e gestiti da pochissime mani, tutte strette fra loro (Viviani 2011).

Su questa lotta con il potere, politico, censorio, prevaricatore, moralista e ipocrita, attribuito alle domande insinuanti e manipolatorie del pubblico ministero che interroga un grande attore, si basa l’impianto di Processo a Viviani. Lo spettacolo ha la forma, semplice e insieme icastica, di una sorta di duello scenico, dove l’incalzare delle accuse è il pretesto per ricostruire puntualmente lo sviluppo di una vita d’artista, che è anche l’affresco della vita di un popolo vessato, diseredato, sfruttato. È in tal modo, dal ripercuotersi delle accuse, in un solo corpo-voce, quello di un attore-cantante (Mario Aterrano) versatile, con una gestualità e un timbro canoro che fanno rivivere efficacemente la presenza attualissima di Viviani, assumendone il somatismo e la comunicativa con grande perizia espressiva, che emergono i personaggi, i tipi, le canzoni, le evocazioni sceniche del teatro di Viviani. Dal guappo di cartone allo scugnizzo, al “saponariello”.

Quando alla richiesta di dichiarare le sue generalità l’attore risponde: “Viviano Raffaele!” (così all’anagrafe), precisa subito, di fronte alla perplessità di chi lo interroga, “in arte Viviani”. Quel nome proprio singolare che “in arte” diventa plurale, suggella come il grande attore-autore incarnasse una intera moltitudine, la pluralità delle voci di tutto un popolo, che inonda l’intera città, spandendosi nei luoghi del fuori, nel paesaggio estroflesso e riversato in esterni. Se infatti il teatro dell’altro enorme attore-drammaturgo del 900, Eduardo De Filippo, si configura come una drammaturgia di interni (sia popolari che, soprattutto, piccolo-borghesi) e nell’ambiguità, anche declinata nelle insorgenze inconsce, dei rovelli e delle contraddizioni delle voci di dentro, il teatro di Viviani ne diventa il risvolto (con analoga forza di denuncia morale), come un teatro polifonico delle voci di fuori.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, A. Lacis, Napoli porosa, Dante & Descartes, Napoli 2011.
A. Lezza, P. Scialò, Viviani. L’autore, interprete, il cantastorie urbano,  Colonnese, Napoli 2000.
R. Viviani, Dalla vita alle scene. L’altra autobiografia (1888-1947), Rogiosi, Napoli 2011.

Processo a Viviani. Scritto e diretto da Corrado Ardone; consulenza letteraria: Maria Emilia Nardo; scenografia: Peppe Zarbo; fotografia: Massimo Accarino, Pino Finizio; luci: Mario Maisto (Xelius); musiche: Peppe Bruno; interpreti: Mario Aterrano, Massimo Peluso; produzione: The Cult; anno di produzione: 2020; durata: 75′.

*L’immagine di copertina dell’articolo è una fotografia di scena di Giusva Cennamo. Fonte: Napoli Teatro Festival Italia.

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