Roma città aperta (Rossellini, 1945).

La prima storia raccontata dal cinema italiano è stata La presa di Roma. Il film che lo ha rifondato, è stato Roma città aperta (Rossellini, 1945). In questo passaggio, si condensa quello che può essere considerato il suo tratto identitario. Gli imperi dell’immaginario hollywoodiano e sovietico hanno costruito l’epos di popoli che facevano tabula rasa del passato; in entrambi i casi, il mito fondativo che muoveva l’agire dell’eroe, il cowboy della Frontiera o il rivoluzionario, era rivolto all’edificazione della Nazione. Il cinema italiano doveva invece riprendere Roma. Soprattutto nei primi decenni del secolo, e in modo parodistico con i peplum del dopoguerra, da riprendere era la Roma dell’Impero. A quella potenza del diritto, a quel diritto alla potenza, aveva guardato anche la Roma della Chiesa cattolica, quando aveva cercato di imitarne la forma imperiale.

Da Roma città aperta comincia un’altra storia, la storia di una liberazione. Liberazione politica dal nazi-fascismo, e al contempo liberazione estetica dalla macchina dell’industria cinematografica, intesa come una fabbrica dell’immaginario, priva di doveri etici verso quel che è stato, priva di compiti testimoniali. Come ogni riflessione meta-storica che si articoli intorno a una data fondatrice, a un evento inteso come spartiacque, tale periodizzazione va intesa nel suo intreccio di elementi fattuali, retorici (capaci di cogliere somiglianze di famiglia e di offrirci strumenti di lettura) e pragmatici (capaci di attivare ricezioni e di intervenire nel dibattito d’idee). Questo ci permette di comprendere come, pur avendo oramai riconosciuto tutti i debiti di Roma città aperta con il cinema del passato, pur avendo compreso non soltanto quanto ci ha aiutato a vedere del processo di liberazione dal nazi-fascismo, ma altresì quanto ha rimosso, esso rimanga l’evento fondatore.   

La liberazione, almeno in una linea portante della storia del cinema italiano, quella linea che da Rossellini va a Fellini e Pasolini, e quindi a Petri, Bellocchio, Moretti, non è però mera affermazione del nuovo. Lo sguardo politico di questi autori, volto a interrogare «lo stato presente dei costumi degli italiani», conduce ogni volta a indagare quel dispositivo teologico-politico, che costituisce l’orizzonte antinomico di ciò che la cultura europea intende per Moderno, quando questo è visto al di fuori di paradigmi che riduttivamente lo identificano con il progresso tecnico-scientifico. Anche quando la modernità è letta nell’ottica della secolarizzazione, in essa si riafferma difatti la tensione che tiene insieme la Chiesa, intesa come forza frenante, come katechon, che deve combattere chi assume le sembianze di Cristo, e per questo anti-idolatrica, al fondo scettica, perché riconosce la forma transeunte di ogni Stato e la natura diabolica di ogni istituto del potere che si proponga come assoluto (cfr. Seconda Lettera ai Tessalonicesi), e l’attesa del ritorno di Cristo, del testimone che incarna, attraverso il dono di sé, la speranza di redenzione di quella comunità e attorno al quale questa si ricostruisce, dopo ogni momento di crisi. Le maschere del potere politico, il volto e il corpo della vittima innocente.

Tale dispositivo teologico-politico si propone perciò al contempo come un contraccolpo alla modernità, quando intesa linearmente come «magnifiche sorti e progressive», ma ne è al contempo l’orizzonte che l’ha preparata e con cui confrontarsi, anche quando esso è declinato “ereticamente”, ossia privilegiando soltanto uno dei suoi termini, per declinarli nei modi del messianismo politico o del nichilismo. Tale dispositivo riguarda in modo particolare l’Italia, che costruisce la sua storia attraverso un confronto agonico reale, e non meramente simbolico, con chi ne è espressione originaria: la Chiesa appunto, che ha combattuto la presa di Roma, compiuta da eroi che però hanno ripetuto una dinamica sacrificale, ispirata alla figura cristica.

 Se tale presenza può essere stato un freno alla costruzione di uno Stato borghese nazionale, simile alle altre grandi nazioni europee, che hanno saputo neutralizzare nel proprio ethos quel fondo scettico, proprio della tensione anti-idolatrica (ciò che l’Italia non è riuscita a essere, proprio per l’inconsistenza della sua classe borghese, come hanno raccontato Visconti, Antonioni, Bernardo Bertolucci), è stato altresì orizzonte che ha spinto l’Italia a considerare sé stessa sempre come crocevia, come terra di confine, esposta oltre i suoi bordi, in nome di quella dimensione universalista, che confligge con modelli nazionalisti-sovranisti e slega l’idea di nemico da quella di straniero, aiutando così a vedere l’umano in primo luogo in coloro che si vorrebbe escludere dalla comunità. A vedere l’umano oltre l’appartenza di nazione, di classe. Anche di specie, pensando a film come Le quattro volte (Frammartino 2010) o Bella e perduta (Marcello 2015).

Dire che il dispositivo teologico-politico innerva il cinema italiano, significa perciò che ci ha aiutato a vedere da una parte la ritualità del potere, ma altresì la politicità del rito. La ritualità del potere. L’eroe è la vittima innocente, attorno al cui sacrificio si rifonda o si chiede di rifondare il diritto della comunità, la cui unità non è riducibile al risultato di un mero scontro di interessi o all’esercizio di una forza: dal don Pietro di Roma città aperta e gli anonimi contadini delle paludi del Polesine in Paisà (Rossellini, 1946), all’Aldo Moro di Buongiorno notte (Bellocchio, 2003) o all’Ida Dalser di Vincere (Bellocchio, 2009), dal Totò di Miracolo a Milano (De Sica, 1951) a quello di Totò che visse due volte (Ciprì, Maresco, 1998) o al Lazzaro felice (2018) di Rohrwacher. Quella vittima innocente si presenta in modo esemplare in Europa ’51 (Rossellini, 1952) come figura kenotica, che rinuncia a ogni forma di possesso, a ogni filopsichia, si fa al modo di Francesco povera, e proprio per questo oggi messa al bando.

Nella stagione del neorealismo, la tensione tra il katechon e la vittima innocente sembra potersi polarizzare attorno a personaggi distinti, a volte scivolando in forme di sacralizzazione della vittima stessa. Per vie speculari, Fellini e Pasolini (nonché il Rossellini più estremo, quello di Germania anno zero ma anche de La macchina ammazzacattivi) indagano se e come possa preservarsi tale innocenza dello sguardo e dell’azione, di fronte al disincanto verso ogni forma di potere. Se tale disincanto non possa rivoltarsi verso la stessa affermazione di innocenza della vittima e verso la sua supposta alterità rispetto al carnefice. Salò (Pasolini, 1975) ne è stata la perlustrazione più inquientante, Dogman (Garrone, 2018) la più recente.    

Politicità del rito: le figure katechontiche, nel loro commercio con il potere, assumono sempre più i contorni di ciò che vogliono combattere e si fanno così freno non soltanto del diffondersi del Male, ma altresì di ogni speranza di redenzione. Questa opera di denuncia ha preso diverse strade, dalla commedia di Magni al grottesco di Ferreri (L’Udienza, 1972). Fellini, in Roma (1972), ne mostrerà in modo definitivo la dimensione mortifera. La denuncia è però soltanto preludio a un lavoro più articolato di scavo rispetto all’intenzione, che sia quella dell’uomo di potere o del santo. Dopo i paradigmi della fenomenologia esistenzialista e dello storicismo, il cinema italiano dagli anni settanta assorbe la lezione dei “maestri del sospetto” (Nietzsche e Freud su tutti, ma anche Foucault), per poi riconoscere, alle loro spalle, la tradizione di quel potere pastorale che doveva giudicare la vocazione e la santità.

La liberazione assume così una strada più tortuosa, perché deve passare attraverso la confessione. Se il cinema hollywoodiano mette al centro l’esame dell’azione attraverso il cinema giudiziario, attraverso il processo, il cinema italiano si arrischia a indagare i moti dell’anima e i suoi innumerevoli nascondigli, come nella grotta di Todo Modo (Petri, 1976), nascosta nelle viscere dell’albergo, nel quale si svolgono esercizi spirituali, sul modello della lezione di Ignazio di Loyola. Alla polarizzazione di Europa ’51, succede l’intreccio de L’ora di religione (Bellocchio, 2002) o di Habemus Papam (Moretti, 2011), nei quali il santo è riconosciuto nella macchinazione e negli interessi che lo costituiscono e il katechon nella sua debolezza, nel corpo che non ce la fa più: la volontà di potenza dell’umile, l’umiltà del potente.

Mentre Sorrentino, esibendo tutti i volti antinomici del katechon in The Young Pope, riafferma con il papa americano l’universalità del dispositivo teologico-politico, da Crialese a Segre, da Garrone (Terra di mezzo, Ospiti) a Gianfranco Rosi (Sacro GRA, 2013), il cinema italiano oggi ritrova l’innocenza della vittima in un’umanità in continua migrazione, che sia per il Mar Mediterraneo o la provincia remota del Nord-Est o la periferia romana attorno al Raccordo Anulare; un’umanità perlopiù costretta al ruolo di vittima, un’umanità che ci chiede di ribaltare il nostro concetto abituale di cittadinanza, modellato sull’appartenenza a uno Stato. Un’umanità da raccontare, come bene hanno spiegato De Gaetano e Dottorini, scardinando come da sempre fa il cinema italiano qualsiasi idea fissa di genere e finanche di distinzione tra documentario e finzione, perché per attestare bisogna immaginare, e per immaginare bisogna provare ad attestare l’inaccettabile, il sacrificio dell’innocente.

Storia di una liberazione, abbiamo detto. Il cinema italiano non ha però soltanto raccontato la complessità della vittima, il cui sacrificio fonda la comunità, ma non ne stabilisce l’innocenza. Ha provato anche a immaginare la liberazione della comunità dalla necessità del sacrificio; una comunità non sacrificale in cui il dono libero di sé sia lieto, gioioso. Dietro l’ingenuità di Totò di Miracolo a Milano o la consapevolezza di Ernesto Picciafuoco de L’ora di religione, emerge l’immagine di una possibilità reale, anche se spesso tali tentativi sono invece letti riduttivamente come uno scivolamento nel fantastico: come se il realismo implicasse di per sé la rinuncia a immaginare lo splendore, qui e ora, della letizia, della felicità. Ma è sempre Rossellini a darcene il racconto esemplare, quando nel primo episodio di Francesco, giullare di Dio (1950), mostra i fraticelli sotto la pioggia, al ritorno da uno dei viaggi a Roma (1209), mentre riflettono sulla regola di vita che dovranno adottare, imperniata sull’umiltà gioiosa, e che da quelle stesse radure, alla fine del film, li porterà a sperdersi per il mondo, prendendo la direzione verso la quale l’assoluta contingenza del reale li spinge, quella verso cui cadono girando più volte su sé stessi.

Bisogna prendere Roma. E poi abbandonarla.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011.
M. Cacciari,
Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.

R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983.

Share