Il reale, diceva Jacques Lacan nel Seminario XXIII, è «la pulsione di morte in quanto non può essere pensato se non come impossibile». Il reale è l’impossibile non nel senso che sia qualcosa di non esistente, perché evidentemente il reale non solo esiste ma è proprio ciò che di più solido esista. Il reale è impossibile perché le nostre parole e i nostri pensieri non riescono a fare presa su di esso. Il linguaggio scivola senza attrito sul reale. Per questo, continua Lacan, il reale è impossibile in quanto «ogni volta che fa capolino è impensabile». L’immagine è delicata, fare capolino, perché il reale non ha bisogno di fare tante storie, il reale non se la tira, come sappiamo il reale può essere molto piccolo, praticamente invisibile. Il «reale», infine, è «la pulsione di morte». Ma la morte di che cosa, propriamente? Del pensiero, cioè della nostra capacità di prendere atto del reale: «Accostarsi a questo impossibile non può costituire una speranza, poiché l’impossibile in questione è la morte, e il fatto che non possa essere pensata è il fondamento del reale» (Lacan 2006, p. 121). La corsa del pensiero si arresta e si schianta sul reale.
Che cos’è, invece, che proprio non riusciamo a non fare quando andiamo a sbattere contro il reale? Non riusciamo a non parlarne. Al contrario proviamo ad avvolgere il reale di un fittissimo bozzolo di discorsi, opinioni, commenti, pareri, comunicati, dichiarazioni, grafici, anatemi. In queste settimane in ogni momento e in ogni lingua del mondo ci sono contemporaneamente centinaia di migliaia di persone che ci stanno dicendo che cos’è il SARS-CoV-2, come si sta diffondendo, che cosa bisogna fare per fermarlo, che cosa non si sta facendo che invece andrebbe fatto, chi si comporta in modo responsabile e chi no, quante persone muoiono e quante guariscono, chi sono i medici che ci salvano la vita, che occorre fare per passare il tempo in modo intelligente, che ne sarà delle relazioni umane dopo il social distancing e così via senza fine (anche questo commento, ovviamente, fa parte di questo bozzolo verbale).
È ovvio, e lo ribadiamo solo per evitare una obiezione scontata, che alcune di queste voci sono più attendibili della maggioranza delle altre. Per essere chiari, non è in questione l’attendibilità della scienza. Il punto è che quando nello stesso momento gli scienziati che parlano del virus – epidemiologici, virologi, infettivologi, pneumologi, medici del pronto soccorso, geriatri e così via – sono tantissimi, ebbene in quello stesso momento facciamo la sgradevole scoperta che neanche loro sono sempre d’accordo, spesso anzi non lo sono per niente (basti pensare alla questione dei tamponi e delle mascherine). E questo, benché con le migliori intenzioni, non fa altro che aggiungere altro rumore a quello che già ci assorda.
Allo stesso tempo è ovvio che sappiamo sempre più cose su questo virus. Ma è altrettanto evidente che tutto questo sapere non ci basta, non ci basta per niente. Perché anche quando gli scienziati sapranno tutto quello che c’è da sapere sul SARS-CoV-2 ebbene anche allora la nostra fame di parole non sarà saziata. Perché quello che angoscia del virus non è come è – se e quanto è pericoloso, come si trasmette, da dove viene, se ha un’origine non umana e così via – ma il fatto che è. L’impossibilità del reale non ha mai a che fare con quello che non sappiamo, piuttosto con quello che già sappiamo e su cui non c’è nessun dubbio.
Quello che è impossibile da capire, del virus che prima di avere infettato i nostri corpi ha contagiato le parole di tutti i nostri discorsi, è che il virus c’è. Semplicemente c’è. Il reale ha questo di intollerabile, che c’è. Per questo il reale è l’emblema insensato (infatti il reale, dice ancora Lacan, «è senza legge»; ivi, p. 134) della pulsione di morte, della morte del pensiero prima ancora che della morte del corpo. Perché il reale è insormontabile, come è appunto insormontabile il fatto che si muore.
In un appunto scritto nella primavera del 1887 (mentre probabilmente si trovava a Nizza), Nietzsche scrive: «Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: “ci sono soltanto fatti”, direi: no, proprio i fatti, non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto “in sé”» (Nietzsche 1975, p. 299). Quello che Nietzsche chiama “fatto in sé” è quello che qui abbiamo chiamato il reale. Un reale che ci sfugge non perché non ne sappiamo abbastanza, al contrario, ci sfugge proprio per la ragione opposta, perché ne sappiamo troppo, perché ne abbiamo date tantissime, troppe, interpretazioni. È questo il punto: anche una interpretazione corretta, veritiera, anzi soprattutto questa ci allontana dal fatto del virus.
Perché una verità sul virus già non è più il virus. Tutte queste «interpretazioni», infatti, non fanno che occultare il fatto sconvolgente che il virus c’è. L’impensabile non è altro che questa assoluta e insensata evidenza. Di fronte al reale, allora, all’impossibilità del reale, possiamo solo parlarne. E naturalmente più di questa impossibilità se ne parla, più, se possibile, questa non fa che aumentare.
Occorre tacere, allora, non parlarne più, come vorrebbero sia gli squisiti spiritualisti sia quelli che non vogliono disturbare chi comanda? Ovviamente no, per la ragione fondamentale che l’orrore che ci suscita il reale possiamo provare a contenerlo solo rivestendolo di parole e concetti. Perché l’orrore paralizza, e non si tratta certo di fermare un movimento vitale che è già troppo rallentato. Però quel bozzolo è bucato, il bruco ne è uscito. Si tratta di passare attraverso quel groviglio di parole e interpretazioni. Occorre, pazzamente, abbandonarsi al fatto impensabile che il reale c’è. Quando non c’è più niente da dire, ecco, allora la vita può ricominciare.
Riferimenti bibliografici
J. Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006.
F. Nietzsche, Frammenti postumi (1885-1887), in Opere di Friedrich Nietzsche, volume VIII, tomo I, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1975.
*L’immagine di anteprima è di Daria Shevtsova (da Pexels).