Utilizzando un approccio interpretativo tipico della cultura visuale, Malavasi traccia nel suo volume Postmoderno e cinema nuove prospettive d’analisi per l’epoca postmoderna, cioè per l’ultimo quarto di secolo del Novecento. Riprendendo la celebre distinzione di John Frow, Malavasi considera il termine postmoderno secondo tre diverse accezioni: come postmodernizzazione, cioè l’epoca storica che inizia nella seconda metà degli anni settanta e che si caratterizza per la potente trasformazione sociale, economica e culturale; come postmodernità, relativa alle teorie che hanno tentato e che tentano di definire questa radicale trasformazione socioculturale; e come postmodernismo cinematografico, con un riferimento diretto al nuovo ambiente tecnologico e mediale nonché al nuovo contesto culturale e visivo che, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, alimenterebbero una serie di cambiamenti ben più profondi di un semplice passaggio da un cinema moderno ad un cinema postmoderno.
Ma, ciò che unisce in un punto limite questi tre diversi significati del termine in causa, è la “questione delle immagini”, che Malavasi indaga a partire dal secondo capitolo, quando analizza l’esistenza sempre più marcata di un profondo rapporto organico tra società e cinema, tra media, immagini e realtà nell’epoca contemporanea, cioè tra una società sempre più media-saturated e un cinema sempre più mediatizzato, che innanzitutto ostenta il predominio della tecnica.
Tra i vari significati attribuiti, Malavasi considera il postmoderno come l’espressione del passaggio dalla fase dei media elettrici a quelli elettronici e digitali, passaggio che si è svolto tra la seconda metà degli anni settanta fino alla fine degli anni novanta. È in questo periodo che il cinema ridefinisce radicalmente la propria identità in quanto medium inserito in un sistema mediale complesso: «Cambia il modo in cui il cinema cambia, non più in base a spinte tecnologiche, stilistiche o produttive, ma in relazione al sistema dei nuovi media digitali» che trasformano anche la società. Dunque, come sottolinea Eugeni nella prefazione, il saggio in questione ha il grande merito di spostare l’attenzione teorica non più «sul cinema postmoderno, ma sul cinema nel e del postmoderno», nonché, come vedremo, di ridefinire la storia del cinema.
Osteggiato da molti cineasti come Haneke, nonché da celebri teorici come Susan Sontag, il postmoderno inizierebbe secondo Malavasi, che riprende Fredric Jameson e Jean Baudrillard, con la “cultura dell’eccesso” degli anni ’60, cioè tra i silenzi musicali di John Cage, la Pop Art di Andy Warhol e la Surfiction di Raymond Federman, ma avrebbe l’inizio della propria fine con l’inverarsi della “rivoluzione digitale” e con l’11 settembre del 2001, cioè con l’avvento di un’epoca “ontologicamente” nuova fondata sul network e con l’emergenza di una discontinuità profonda e reale dovuta dall’attacco alle Twin Towers. Riprendendo il termine coniato da Jeffrey T. Nealon di post-postmoderno, inteso come periodo storico e socioculturale successivo all’11 settembre del 2001, Malavasi inizia il primo capitolo dall’epilogo, individuando i trademarks che del postmoderno vengono rifiutati categoricamente.
Tra i vari connotati del post-postmoderno vi è quello dell’autenticità, affrontata da David Foster Wallace nel saggio seminale E Unibus Pluram del 1993, che si pone in favore del rilancio di un’idea di sincerità e al contempo di rifiuto e superamento dell’ironia postmoderna, assorbita da un sistema culturale che ne ha fatto il proprio portabandiera. Due anni dopo, E Unibus Pluram trova il proprio correlato cinematografico con il Dogma 95, il cui manifesto contribuisce non poco a rafforzare le proposte dello scrittore contro l’“idiotismo”, ponendosi a favore, invece, di una ricerca della purezza e di una condanna degli artifici e dei tecnicismi.
Quattro anni dopo il manifesto dei registi danesi, le idee di Wallace trovano un’ulteriore conferma, questa volta oltreoceano, con la pubblicazione, avvenuta il 4 agosto del 1999, del manifesto dello Stuckism degli artisti inglesi Billy Childish e Charles Thomson, il cui primo punto dichiara proprio che «lo Stuckism è la ricerca dell’autenticità. Rimuovendo la maschera della sagacia e ammettendo dove siamo, gli Stuckist concedono a se stessi un’espressione senza censure». Alla base di questa ricerca c’è un radicale rifiuto del sistema postmoderno dell’arte: non solo, dunque, della produzione di artisti come Damien Hirts, Tracey Emin, Sarah Lucas, Sam Taylor-Wood, ma anche dell’abbraccio tra mondo dell’arte e capitalismo, della logica delle esposizioni internazionali, della critica e dei premi, del rapporto di forte dipendenza della produzione artistica dalla teoria.
Ciò che paradossalmente la postmodernità rigurgita dentro di sé è un chiaro e netto bisogno di tornare al realismo, di tornare alla riflessività, di tornare a far presa sul mondo, perché prima ancora della proposta di qualsiasi pensiero realista, spiega Malavasi riprendendo Baudrillard e Hassan, è la realtà stessa ad aver imposto la necessità di un’indagine diversa, perché dall’attentato alle Twin Towers alla crisi economica del 2008, dalla Seconda Guerra del Golfo (2003 – 2011) fino alla “guerra del terrore”, sono i più drammatici avvenimenti storici, prima di una sua crisi interna, ad aver invalidato la tenuta di alcuni dei presupposti cardini del postmoderno. Tornare ad un umanesimo, tornare ad imboccare una strada prettamente ontologica e pragmatica, dunque, tornare ad essere moderni: è questa la prima risultante, nonché la necessità, della complessa interpretazione del processo di invalidazione del postmoderno a cui arriva Malavasi alla fine del suo primo capitolo.
A partire dal secondo capitolo, proseguendo fino alla fine del volume, è il postmodernismo cinematografico, con il suo sempre più complesso processo di tecnicizzazione e mediatizzazione, ad essere indagato per far emergere i fattori per cui il cinema sia stato postmoderno. I recenti mezzi di comunicazione di massa creano, secondo Malavasi, una nuova “realtà elettronica” caratterizzata da immagini e simboli che sostituiscono il mondo sensibile stesso. L’immagine inizia ad essere considerata come un velo, per dirla con Flusser, o come un simulacro, riprendendo Baudrillard, spostando la “questione delle immagini” non più sul “problema dell’assenza” della realtà, ma sul “mistero della presenza” delle immagini. Contemporaneamente alle mutazioni socioculturali ed economico-industriali, prima degli Stati Uniti e successivamente dell’Europa, anche il cinema, cercando di rispondere ai continui mutamenti della cultura visuale, si trasforma, arrivando alla “sua fine così come lo conoscevamo”.
Il cinema tout court non muore, spiega Malavasi, ma muore il “cinema così come lo conoscevamo”, cioè il cinema come testimonianza del reale, come rapporto dialettico tra la sua rappresentazione ed il mondo oggettivo, a favore di un cinema iperreale senza alcun legame antropomorfo, che rifiuta un’idea di realismo sia come illusione del reale o mimesi, cioè come occultamento delle proprie capacità espressive (cinema classico), che come adeguamento della rappresentazione «alle norme culturali della percezione nello spazio e nel tempo» (cinema moderno). Il cinema postmoderno diventa iperreale, riprendendo Baudrillard, in quanto le proprie rappresentazioni cessano di rimandare al reale, al mondo visibile, acquistando autonomia e valore di per sé, sostituendosi alla realtà, simulandola in versione “iper”, grazie anche alle capacità dell’immagine digitale, con i suoi effetti speciali.
La rappresentazione postmoderna non cessa di essere una presenza-assenza, ma travalica il rapporto dialettico con il mondo sensibile, in quanto il suo primo referente non è più, ma è innanzitutto l’immagine stessa. Già finzione o simulacro di per sé, l’immagine cinematografica postmoderna raddoppia, secondo Malavasi, la propria congenita dimensione finzionale, riferendosi innanzitutto a sé (facendo, per esempio, del cinema l’oggetto della sua analisi) e simulando una referenza all’”oggettività” del reale in maniera “iper”, ovvero grazie anche alle capacità dell’immagine digitale di creare «un nuovo tipo di realtà (realtà “reale”, anzi “più reale”)». Ma questa realtà “più reale” del reale, non deve essere intesa «come assenza di realtà, o come una sua regressione fantasmatica», bensì come riferimento alla nuova realtà creatasi dall’incessante gioco di scambi di immagini (di reduplicazione) apportato dalla mediatizzazione.
Malavasi ridefinisce implicitamente la storia del cinema, dimostrando come il cinema postmoderno non inizi con Star Wars (1977) di George Lucas ma, sorvolando la Pop Art di Andy Warhol e quindi il suo cinema underground, con la pratica artistica riproduttiva della New Hollywood. Film come Ma papà ti manda sola? (1972) di Bogdanovich e Chinatown (1974) di Polanski mettono in luce quel processo di risemantizzazione, di allegoria, cioè quel suo parlare d’altro che, attraverso la reificazione intermediale d’immagini, contraddistingue il cinema postmoderno e la società mediatizzata contemporanea. Ciò accade, perché la New Hollywood è stata innanzitutto una “rivoluzione” poetica più che stilistica, fondata sulla riproduzione sistematica del sistema dei generi del cinema narrativo classico americano, così da crearne un’allegoria, un parlare d’altro.
Dunque, un tipo di cinema, quello della New Hollywood, che prima di tutto trascenderebbe un rapporto dialettico con il mondo visibile, per avere come primo referente l’immagine stessa, cioè il cinema: Ma papà ti manda sola? come allegoria di Susanna (1938) di Hawks, Chinatown come riproduzione delle detective story hard boiled del noir, come Il mistero del falco (1942) di Huston, Gangster Story (1967) di Penn come risemantizzazione dei gangster movie degli anni venti come Nemico pubblico (1931) di William A. Wellman. Un tipo di cinema quello del e nel postmoderno che ha come referente principale un’altra immagine, prendendo così «misura e coscienza di sé, su di sé, sulla serie di trasformazioni (tecnologiche, sociali, culturali) che rimettono in gioco la sua identità di medium, il suo funzionamento di dispositivo di rappresentazione tecnica e il suo ruolo sociale».
Ciò, che è il principale senso della nozione filosofica di iperrealtà, cardine dell’estetica postmoderna non solo cinematografica, può concretizzarsi in vari modi: come messa in mostra di una serie di strategie espressive esplicitamente fondate sul principio della rappresentazione delle immagini; attraverso una sempre più massiccia infiltrazione di estetiche provenienti dal lessico della pubblicità, dei videomusic o altri dispositivi elettronici (si pensi a Redacted di De Palma del 2007); mediante la realizzazione di film che fanno dell’interpretazione e dell’esplorazione (più o meno fantascientifica) del tema sociale dell’iperrealtà il loro contenuto come Matrix (1999) dei fratelli Wachowski; ma anche, riprendendo la pittura iperrealista, come ricerca di un sempre maggior grado di conformità figurativa, che trova in Apocalypse Now (1979) di Coppola uno dei suoi archetipi.
Riferimenti bibliografici
J. Aumont, L’occhio interminabile, Marsilio, Venezia 1991.
L. Malvasi, Postmoderno e cinema. Nuove prospettive d’analisi, Carocci, Roma 2017.
A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale, Einaudi, Torino 2016.