Il presupposto dell’instabilità
Crisi, impasse e aporie in filosofia sono sproni per avanzare nelle ricerche, per riuscire a superare le difficoltà che periodicamente si presentano tanto sul piano degli oggetti delle indagini quanto su quello dei loro orientamenti. Farsene carico non significa solo ampliare l’orizzonte delle ricerche ma anche mettere in discussione i modi per svolgerle, i modi di fare filosofia. Quando nel 1983 i filosofi Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti tracciavano il profilo di quello che proponevano di chiamare “pensiero debole”, mettevano in risalto anche questa condizione. Aprivano un varco nel dibattito filosofico criticando sia le inclinazioni strutturaliste e fenomenologiche sia le riflessioni sulla crisi del razionalismo classico alla luce delle trasformazioni delle forme di vita determinate dalle asimmetrie tra esperienza e conoscenza. In entrambi i casi l’ordine della logica e il preteso perfezionismo della ragione venivano messi in discussione, ma il modo di farlo concorreva comunque a corroborare quei «tratti metafisici del pensiero» che Vattimo e Rovatti (2010, p. 10) declinavano.
Infatti, piuttosto che il nome di una nuova filosofia, con “pensiero debole” designavano un approdo provvisorio, la direzione per un percorso praticabile. Un modo per ripensare la fondazione della filosofia alla luce di quattro fattori: il decentramento del soggetto, la rivalutazione del mondo delle apparenze quale sede prescelta per le esperienze, il ruolo di un pensiero che possa basarsi sulla ricezione delle condizioni chiaroscurali, l’identificazione ermeneutica tra essere e linguaggio. Dunque, anziché avere quale riferimento una eventuale mediazione offerta dall’esperienza, quel modo di tracciare percorsi facendo filosofia si contraddistingue per la necessità di indebolire il pensiero incentivandone però i potenziali movimenti. Quel che appena si intravede richiede l’esercizio delle intuizioni e il pensabile è anche attività di smascheramento, sospetto verso il visibile, filosofia ermeneutica. In altri termini, l’instabilità e il divenire del mondo e degli eventi sono simmetricamente riflessi dal pensiero su di essi. Un primo chiarimento di questo orientamento può essere offerto attraverso un confronto. Per affrontare la crisi della razionalità, il filosofo Aldo Giorgio Gargani scriveva: «Nella scoperta di un nuovo ordine di verità subentra una specie di tensione muscolare. Piantando in asso figure logore e astratte, proprie dei linguaggi e del sapere istituzionalizzati, ricerchiamo un contatto più diretto, un’approssimazione crescente con l’esperienza che ci circonda, sottraendoci dallo schema fondamentale della razionalità classica di un antefatto primordiale del nostro sapere, di una teologia del sapere tutto dispiegato» (Gargani 1979, pp. 44-45).
L’esperienza mette in scacco la conoscenza, perciò l’esigenza è di ristabilire un nuovo ordine. Tutt’altro è il sapore della proposta tracciata dai difensori dell’indebolimento del pensiero che scrivevano: «La razionalità deve, al proprio interno, depotenziarsi, cedere terreno, non aver timore di indietreggiare verso la supposta zona d’ombra, non restare paralizzata dalla perdita del riferimento luminoso, unico e stabile, cartesiano» (ivi, p. 10). Gli ingredienti per riuscire a praticare tale percorso erano indicati nell’assunzione di «un’etica della debolezza» (ibidem) e nella possibilità di procedere per tentativi ricollegandosi alla tradizione e aprendo a nuove vie per il pensiero.
Due posizioni
Questo, in estrema sintesi, il profilo del pensiero debole. In esso, il presupposto dell’instabilità – tanto il mondo quanto il pensiero sono in continua trasformazione, il loro divenire origina incertezze e mutamenti – trova espressione in due posizioni teoriche caratterizzanti. La prima concerne il nesso tra verità e interpretazione, la seconda il legame tra trasformazione e decentramento del soggetto.
La prima posizione prende forma nella filosofia di Vattimo che chiarisce come la verità sia esito di un processo di verifica che ha due caratteristiche: si basa sul recupero di procedure già date e ha natura retorica anziché logica o metafisica. Quello dal quale attinge il pensiero debole è dunque «l’orizzonte retorico della verità» (ivi, p. 26) che si caratterizza per essere un orizzonte ermeneutico. Strumento cruciale per la riuscita del recupero di procedure già date non sarà infatti la logica della verificazione, bensì l’intuizione, nella misura in cui al risultato della verità si giunge solo mediante l’interpretazione per via del ripensamento. «Se l’essere non è, ma si tramanda, il pensiero dell’essere non sarà altro che ri-pensamento di ciò che è stato detto e pensato» (ivi, p. 24).
A emergere è anche il legame tra nichilismo e pensiero debole – basato su una ermeneutica «radicalmente pensata» – che Vattimo riporta in primo piano attraverso l’identificazione dell’Essere all’evento. «Una ermeneutica radicalmente pensata non può che essere nichilista e cioè pensiero debole – esercizio di interpretazione legittimato dal “fatto” che l’Essere non si dà (più) come oggettività» (Vattimo 2012, p. 15). La prima posizione è riassumibile in quella che potremmo chiamare “trasformazione permanente”, ossia nella possibilità stessa di coglierla mediante l’esercizio dell’intuizione, ammettendo comunque la continua variabilità. Ci torneremo nella prossima sezione.
La seconda posizione ha origine nella riflessione intorno al soggetto formulata da Rovatti. Il problema della dissoluzione del soggetto rimanda a quello degli esercizi del potere nella società: «Il soggetto sopravvive, se non altro nel senso che il potere ce lo ripropone facendo agire la propria efficacia, esercitando la propria azione entro lo spazio della soggettività» (Rovatti 1990, p. 110). Nel quadro del pensiero debole, quello del soggetto diventa un tema centrale poiché in esso – seguendo la filosofia nietzschiana – si consegue una sintesi di quella forza che risiederebbe precisamente nella debolezza del suo pensiero. «I più forti saranno i più moderati, senza però diventare deboli» scrive Rovatti (in Rovatti, Vattimo 2010, p. 31) e prosegue precisando: «Vi è un cammino difficile dentro il nichilismo, in cui l’uomo acquisisce la capacità di abbandonare le proprie catene» (ibidem).
Anziché indietreggiare, il soggetto aumenta le sue possibilità nonostante il suo decentramento: è in bilico trovandosi in un «equilibrio instabile» (ibidem). In tale condizione avrebbe origine anche la stessa possibilità del pensiero debole di trasformare una forza che è affermazione e autonegazione, come scrive Rovatti. Perdendo il centro, il soggetto acquisisce un carattere che potremmo chiamare di “costanza trasformativa”, determinato dall’esperienza della vita quotidiana. A manifestarsi sarebbe dunque un doppio movimento: «Il “pensiero debole” chiede una modificazione tanto dell’oggetto della conoscenza quanto del soggetto del conoscere» (ivi, p. 42). Un doppio movimento che determina una apertura, ossia la base della variazione permanente che concerne sia il pensiero sia i suoi oggetti.
Illuminazioni
L’apertura, tuttavia, non ha quale condizione di possibilità il primato dell’esperienza ma dell’interpretazione. L’intuizione, infatti, è indice della risoluzione dell’estetica nell’ermeneutica. Il suo esercizio non è che un primo passo in direzione di quella che sarà successivamente la formulazione di una interpretazione. Vattimo descrive quel passaggio ponendo l’esercizio dell’intuizione in relazione alla «illuminazione interiore» e alla possibilità di cogliere i principi primi recuperando quanto era già disponibile. Aspetti che rimandano alla ricezione delle condizioni chiaroscurali, più precisamente alla apertura illuminante (Lichtung) di Heidegger. «La Lichtung non è solo illuminazione, ma illuminazione del nascondersi della presenza» (Vattimo 2012, p. 210): ossia, non solo qualcosa non può essere colto ma il modo stesso in cui si prova a farlo rimane nascosto.
Secondo Vattimo, infatti, la stessa possibilità del pensiero debole è nel compimento dell’oltrepassamento heideggeriano della metafisica attraverso il recupero della dialettica che alimenta nuovamente anche il pensiero della differenza. In ciò, il ruolo della ermeneutica è decisivo, essendo una conoscenza del reale intesa come una «prensione che porta in sé l’impronta di chi “conosce”» nonché una «remota prosecuzione del kantismo. Il mondo è fenomeno, cioè un ordine di cose che il soggetto entra attivamente a costituire» (ivi, p. 86). All’interpretazione è assegnato il compito di fare risaltare l’instabilità che influenza tanto il soggetto quanto gli oggetti del suo pensiero, quanto ancora i modi in cui esso può articolarsi. Tale instabilità riguarda il soggetto nella misura in cui, come osserva Rovatti (2007), permette di dare seguito al distanziamento, ai modi in cui il pensiero può avere luogo nel linguaggio.
Su questa base, le due posizioni individuate nella sezione precedente si specificano rendendo manifeste due tesi in particolare: la prima sul ruolo del discorso e la seconda concernente l’essere come monumento. L’origine della prima tesi è nelle filosofie nietzschiana e foucaultiana e afferma che le possibilità attivamente costitutive del soggetto avrebbero origine nella instabilità, un evento che determinerebbe positivamente le produttività discorsive e il loro autonomizzarsi. La seconda tesi, di ispirazione nietzschiana e heideggeriana, ammette che la condizione di possibilità per le esperienze del mondo sia la caducità: «L’essere non è ma ac-cade […] accompagna in quanto caducità ogni nostra rappresentazione», perciò nel quadro di una ontologia debole l’essere è concepito come «tras-missione e monumento» (Vattimo in Rovatti, Vattimo 2010, pp. 23 e 27) in quanto nuovamente in ricezione con la tradizione e aperto a nuove direzioni per il pensiero.
Il ruolo del transito
Alla luce del presupposto dell’instabilità, delle posizioni e delle due tesi individuate, è possibile riconoscere un aspetto del carattere ermeneutico del pensiero debole che richiede di essere affrontato. Tanto in relazione all’eventuale autonomia dei discorsi che esso può rendere possibili (d’accordo con la tesi del discorso) quanto alla condizione dialettica e differenziale dell’essere che lo rendono veicolo (d’accordo con la tesi del monumento), a porsi non sarebbe immediatamente il legame con il passato o la proiezione verso il futuro, bensì un primato del presente. Se tanto per il passato quanto per il futuro, l’esito sarà sempre determinato dalla possibilità di tracciare una prospettiva – o, potremmo dire, di formulare una interpretazione – e se non è la meta ma la direzione a essere individuabile in quel percorso praticabile che offre il pensiero debole, allora la dimensione del presente risulta precipua e influente per il suo carattere ermeneutico.
Tale primato può essere riconosciuto considerando, per esempio, due accezioni che poggiano sulle tesi individuate. La tesi del monumento si specifica in quella secondo cui la differenza dell’essere è concepita come «interferenza» (ivi, p. 28), quella del discoro nella coincidenza tra esperienza e soggettività che rende possibile le «condizioni minime» (ivi, p. 51) per praticare il percorso. Entrambi i riferimenti si prestano per rimettere in discussione limiti e possibilità del pensiero debole considerando in particolare il ruolo che in esso avrebbe anche il transito. Vale a dire, riprendendo la descrizione offerta da uno dei primi critici del pensiero debole, il filosofo Mario Perniola, il ruolo di «un movimento sincronico che va dal presente al presente» (Perniola 1998, p. 16). Un passaggio che attraverso la dilatazione del presente renderebbe possibile la spazialità del tempo e individuandolo ovunque determinerebbe anche la temporalità dello spazio.
«Il mondo non ha un centro né una periferia», scrive Perniola (ivi, p. 17). Il pensiero su di esso, conformemente al suo indebolimento, si dispiegherebbe simmetricamente rischiando però di interferire con il carattere dialogico della dialettica e di causare ricadute anche sul piano delle possibilità differenziali. L’esito sarebbe una concezione retoricamente persuasiva, sempre temporanea poiché sempre presente. «C’è dunque qualcosa di transitorio e di intermedio nell’espressione “pensiero debole”» (Rovatti in Rovatti, Vattimo 2010, p. 51).
Riferimenti bibliografici
A.G. Gargani, a cura di, Crisi della ragione, Einaudi, Torino 1979.
M. Perniola, Transiti Filosofia e perversione, Castelvecchi, Roma 1998.
P.A. Rovatti, Abitare la distanza Per una pratica della filosofia, Raffaello Cortina, Milano 2007.
Id., Soggetto addio, in G. Vattimo, Filosofia al presente, Garzani, Milano 1990.
G. Vattimo, Filosofia al presente, Garzanti, Milano 1990.
Id., Della realtà, Garzanti, Milano 2012.
G. Vattimo, P.A. Rovatti, a cura di, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 2010.