di ELEONORA SANTAMARIA
Sulla terza stagione di Pose.
Rappresentare una sottocultura, un gruppo di persone in aperta contrapposizione con la maggioranza (il mainstream) per estetica, simbologia e linguaggio, è un’operazione rischiosa. A maggior ragione se si vuole creare un immaginario mediatico attingendo dalle fortezze culturali di minoranze – o presunte tali – divenute “famiglia” per sopravvivere. La ballroom scene di New York, nata negli anni ottanta, era proprio questo: un micro-universo in cui individui trans, omosessuali o queer (diremmo oggi) competevano a colpi di voguing (una danza che ricorda al contempo le copertine della rivista Vogue e i geroglifici egizi), nel tentativo di ricreare in una stanza quella società eteronormata che li aveva cacciati e di performarla. Il rischio di raccontare il loro dramma è di scadere nell’esemplificazione, nell’eliminazione dei livelli di profondità in nome del pop e dell’universalità. L’ha scoperto Jennie Livingston nella creazione del documentario Paris is burning (1990) ed è stato confermato dall’esperienza di Ryan Murphy, che partendo dalla crudezza melanconica dell’opera di Livingston è approdato a Pose, la serie patinata sulla cultura delle ball.
Una controcultura viene stravolta quando la si racconta a un pubblico vasto, facendola quindi uscire dalla dimensione intima – e dolorosa – da cui ha avuto origine. Il compromesso per far conoscere le storie del microcosmo ball è allontanarle dai loro protagonisti, sempre ai margini e lontani dalla cultura capitalista dominante; per rispettare la narrazione stessa non si può agire in un’ottica unicamente commerciale, è necessario avere cura nei confronti delle identità coinvolte e dei loro drammi. Solo la cura dell’esposizione, della verità e delle sensibilità sottoculturali fa la differenza tra saccheggiare una sottocultura e farle un tributo, ma dalla terza stagione di Pose (di Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steven Canals) questo non traspare.
La narrativa di Pose, in onda in Italia su Netflix, si snoda tra gli anni ottanta e novanta e segue la quotidianità di due Houses – sistemi familiari rielaborati per ospitare persone non accettate altrove per motivi di genere o sessuali – e dei loro membri: la Evangelista e la Abundance/Wintour. Nella storia della mother – la figura accudente attorno alla quale orbita l’intera house – di Casa Abundance, Elektra, crescono rigogliose tutte le contraddizioni delle scelte di Murphy.
Elektra, interpretata da Dominique Jackson, rappresenta una leggenda all’interno dell’ambiente ballroom. Feroce (fierce per usare la terminologia da ball) e coraggiosa, viene tratteggiata dal principio come una moderna Antigone che lascia primeggiare la legge naturale ed emotiva sulla legge della società. I figli e le figlie di Elektra fuggono dalla propria famiglia biologica che non riesce a collocarli all’interno delle strutture sociali, sovvertendo le regole dicotomiche della società e le aspettative di genere solo con il proprio esistere; l’unica a riconoscerli come soggetti è Elektra, che li accoglie e costruisce per loro e con loro un nuovo impianto valoriale che si basa sulla verità (legge naturale, quindi). Ciò avviene fino alla terza stagione, momento in cui la “redenzione” di Elektra, che finalmente riesce ad avere la ricchezza per cui ha lottato, distrugge ogni suo valore. Il successo della mother per eccellenza non è il risultato del suo lavoro come imprenditrice o sex worker, ma della sua alleanza con la mafia. L’organizzazione criminale risulta un surrogato di quelle leggi umane – non naturali – contro cui Elektra si scontra; la morale mafiosa si struttura in maniera parassitaria su quella statale formando così un sistema normativo parallelo rispetto a quello della società.
Ancora peggio, le norme della criminalità calpestano quegli ideali naturali di empatia e di amore per l’alterità che Elektra portava avanti come mother. Murphy spezza in un istante la tensione interiore di un personaggio che vuole essere un membro della società ma non può né riesce a rinunciare a pezzi di sé per farlo. Il deus ex machina mafioso taglia in due la personalità di Elektra e la mostra monodimensionale: addio ad Antigone e benvenuto al “fine che giustifica i mezzi”. Nella corsa al lieto fine e all’edulcorazione della tragedia, Murphy si distacca dalla propria narrativa e dagli eventi storici legati alle ballroom, non costruisce un finale alternativo ricco di speranza ma mente, togliendo spessore allo stesso universo di persone che si raccontano in Paris is burning. Se nelle prime due stagioni l’addolcire il tragico della controcultura ball, esclusa dalla messinscena di benessere statunitense e falciata dall’AIDS, poteva costituire – a fatica – una scelta narrativa, la banalizzazione del dolore e la retorica smielata della terza stagione rendono Pose una serie che colonizza e si appropria di una cultura senza darle nulla in cambio. In tutti e sette gli episodi dell’ultima stagione si sente l’odore di quel rainbow washing – la strategia di marketing di ammiccare alla comunità LGBTQIA+ per rendere un prodotto più attrattivo – che ha contraddistinto Netflix negli ultimi anni.
Il peccato non è aver dato a Elektra, e a tutti gli altri personaggi, un lieto fine che nella realtà non c’è stato (basti pensare alle protagoniste di Paris is burning e alla loro morte per droga, AIDS o omicidio), ma di aver travestito un finale vuoto, a tratti desolante, da lieto fine. La ballroom scene, pur avendo un proprio sistema valoriale, ha sempre guardato con desiderio la cultura maggioritaria che l’ha tagliata fuori: pensiamo a Venus Xtravaganza di Paris is burning e il suo voler divenire madre e moglie, un po’ come il personaggio di Angel in Pose. Nelle ball, l’american dream – e la sua sottotrama per cui o sei ricco o non esisti – non può realizzarsi ma viene continuamente ricercato, tanto che i due universi, cultura e sottocultura, si specchiano tra loro, in un gioco di apparenze.
Elektra ha rifiutato di omologarsi alla pantomima borghese: si è allontanata da una madre che non voleva vederla con abiti femminili e ha preferito l’abbandono dell’amante facoltoso al rimanere in un corpo che non le apparteneva. Nella sottocultura del “giocare a essere”, Elektra tenta di valorizzare le specificità proprie e della propria comunità, ma il suo epilogo si traduce nell’abbracciare il paradigma maggioritario. Si amalgama nel tessuto di quel sistema che l’ha demonizzata, alleandosi con il proprio aguzzino. Nonostante avesse avuto in sé tutte le caratteristiche per inventare un nuovo paradigma, complesso e multiforme, e riscattare le identità giudicate socialmente non conformi, Elektra va sul sicuro, percorre una strada – illegale – già battuta. La sua specificità muore.
All’inizio della serie, la Casa Abundance ha svaligiato un museo per ottenere degli abiti regali per una ball in cui ci si sfidava nella categoria “regalità”: i partecipanti avrebbero dovuto impersonare re e regine senza destare il minimo dubbio di verosimiglianza tra i presenti e per vincere avrebbero dovuto convincere tutti e tutte del proprio sangue blu. Il furto mostra la casualità dei ruoli sociali ed economici: se rubo e indosso un vestito di una regina, di una donna o di un uomo d’affari, lo divento. Nessun essenzialismo: se tutto è travestimento e finzione, mi basterà far credere a tutti di essere una divinità per essere venerata. Se tutto è maschera, persino l’essere, avere uno stile significa scegliere chi essere. Non c’è superficialità nel dire che tutto è estetica: quest’ultima diventa un manifesto politico che decostruisce l’innatismo e inneggia a una liberazione dalle definizioni granitiche delle identità.
Nell’ultima stagione, però, i lustrini che nascondevano queste dichiarazioni si sono svuotati, sono diventati soltanto il colore di un’opera glam e barocca, come ama definirla Murphy. L’Elektra snaturata e la meraviglia dei suoi abiti non sono più un atto estetico-politico incarnato, fanno solo bene agli occhi. L’opera Pose si è dimenticata quale fosse il rischio di dipingere una sottocultura e di doverla maneggiare con cura per non corromperla e impoverirla. E che cosa è successo a Elektra? Perché è in declino? A lei è toccata la stessa sorte della serie di cui è protagonista: ha venduto la propria fierezza in cambio del sogno americano.
Pose. Regia: Ryan Murphy, Gwyneth Horder-Payton, Nelson Cragg, Silas Howard, Tina Mabry, Janet Mock; fotografia: Simon Dennis, Nelson Cragg; musiche: Mac Quayle; interpreti: MJ Rodriguez, Billy Porter, Dominique Jackson, Indya Moore, Ryan Jamaal Swain, Charlayne Woodard, Hailie Sahar, Angelica Ross, Angel Bismark Curiel, Dyllón Burnside, Evan Peters, Kate Mara, James Van Der Beek, Sandra Bernhard, Jason A. Rodriguez; produzione: Color Force, Brad Falchuk Teley–Vision, Ryan Murphy Productions, Touchstone Television (stagioni 1 – 2), 20th Television (stagione 3 – in corso), FX Productions; distribuzione: Netflix; origine: USA; durata: 43 – 91 minuti; anno: 2018-2021.