“Fermate il mondo, voglio scendere” è una buona traduzione dello sconcerto tweettato da Liam Gallagher all’indomani del voto per la Brexit. Era il 24 giugno 2016 e il mondo si svegliava apprendendo l’esito del referendum che avrebbe gettato il Regno Unito nell’incertezza politica e sociale. Il parere del frontman degli Oasis è in realtà solo una delle tante posizioni che il mondo della musica ha prodotto riguardo alla Brexit e all’elezione di Trump, nel novembre dello stesso anno, due eventi che da allora hanno catalizzato l’attenzione dei media e degli artisti.

Il panorama della musica angloamericana non è rimasto affatto vago a riguardo, esponendosi in varie maniere con quello che ha tutti i connotati di un urgente impegno sociale, paragonato da Fernando Rennis allo stesso impegno dei poeti di guerra (Rennis 2018, p. 213) che hanno consegnato ai posteri impressioni, sgomenti ed entusiasmi sui conflitti mondiali. Oltre a questa perspicace osservazione, che si allinea a quelle favorevoli al criticatissimo Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan del 2016, Rennis ci fornisce, con questa sua ultima pubblicazione, un tentativo estremamente ben riuscito di far ordine tra i tanti fatti di cronaca politica recente e la loro influenza, talvolta ambivalente, sul mondo musicale angloamericano.

Se da una parte è infatti tangibile l’assenza dei giovani nelle iniziative politico-culturali in grado di produrre musica prepotentemente impegnata in favore invece del distacco proposto da alcune espressioni tipo quelle indie e hipster, dall’altra i grandi movimenti e i raduni dei figli dei fiori sono stati sostituiti dall’enorme piazza di internet nella quale, individualmente e coi propri account verificati, alcuni artisti si affacciano in sostegno o contro alle personalità politiche, tramite riferimenti più o meno velati in dichiarazioni, hashtag, clip musicali e testi.

Emblematico in questo senso è, ad esempio, il sostegno multimodale di Katy Perry alla campagna elettorale di Hillary Clinton per le presidenziali del 2016, nella quale la cantante californiana si è prodigata quasi quotidianamente, contribuendo anche con la sua sprezzante hit Roar (2013). Opposto è stato invece l’effetto sortito da una scelta musicale di Theresa May, che, nell’ottobre 2018, con movenze poco disinvolte, è entrata sul palco della convention del suo partito conservatore al ritmo di “Dancing Queen” (1976) degli Abba, gruppo svedese che ha dichiarato in più occasioni la volontà che le proprie canzoni non venissero usate a scopi politici. Tuttavia, pur comprendendo le critiche sull’utilizzo non autorizzato del brano, stando al parere di Ernesto Assante nella nota introduttiva a Politics «non esiste musica disimpegnata, perché anche rifiutare l’impegno è una posizione politica» (ivi, p. 11).

La lucida analisi sociale portata avanti da Politics è compendiata in una raccolta di proposte eterogenee che a partire dalla musica tocca il mondo del cinema, delle serie TV e quello letterario, tutti reduci o portavoce delle ideologie politiche degli ultimi tempi. L’intertestualità del testo si fa apprezzare sin dall’Indice in quanto il titolo di ogni capitolo fa riferimento a una canzone o un album significativi per la tematica che affronta, in cui, ad esempio, la canzone “Safe European Home” (1978) dei The Clash introduce il capitolo sulle vicende della Brexit, il verso «Listen to the martyrs cry for me» del brano degli Algiers del 2017 sull’assassinio di attivisti neri è il titolo del capitolo sulla questione razziale o, ancora, “My body, my choice” presenta quello riguardante i diritti Lgbt+ e il ruolo delle donne ed è preso in prestito dalla canzone Fight like a girl (2017) di Zolita, artista queer femminista.

La riflessione che però attraversa tutto il testo riguarda la condizione esistenziale degli ultimi anni che è all’insegna dello smarrimento e della rassegnazione dovuti alla consapevolezza postmoderna della vacuità delle grandi narrazioni lyotardiane e allo svuotamento dei valori tradizionali. In un’epoca in cui il realismo capitalista sottopone ogni espressione umana a quella che Mark Fisher ha definito «ontologia imprenditoriale»(Fisher 2017, p. 51), in cui tutto viene trattato con dinamiche aziendali nelle quali non ci sono comunque certezze, sia la politica che la musica si sono ritrovate incapaci di proposte nuove e coinvolgenti e hanno entrambe finito per rifugiarsi in valori di un passato prossimo più affascinante e apparentemente sicuro, quello degli anni ’80.

Rennis propone un riesame storico delle cause del fallimento delle sinistre e dell’ascesa dei populismi di destra, paragonando il voto per la Brexit e l’elezione di Trump a delle scelte democratiche per un ritorno ad un passato apparentemente più glorioso e stabile in cui i molti mandati, rispettivamente quelli della Thatcher, dei forti sentimenti patriottici e pienamente imperialisti – basti pensare alle Falkland – e quelli di Reagan, ironicamente anche affine al tycoon per la carriera da celebrità ante candidatura, danno l’impressione di una consolidata solidità.

Allo stesso modo, anche la musica contemporanea vive uno stato di smarrimento, dovuto sia al contesto politico-sociale che all’uso massiccio del web che l’hanno resa liquida, volendo usare una terminologia cara a Bauman, in quanto vi si riscontra un’incertezza tra generi e intenzioni di fondo. Symon Reynolds parla a riguardo di una vera e propria retromania per spiegare il fenomeno del nostalgico ritorno agli anni ’80, propinati come una novità di tendenza, in cui, per Rennis, il vinile non è altro che un «feticcio vintage» (ivi, p. 50) alla stregua degli entusiasmi del “Make America Great Again”. Tuttavia, come ha sottolineato Bauman, la moda del ritorno al passato rappresenta una gabbia immobilizzante in cui non si riesce a intravedere il futuro che è relegato in quella che lui chiama retrotopia, laddove il passato rievocato non è affatto idilliaco ma piuttosto è reso tale da una narrazione che ha tutti gli stilemi di quelle utopistiche.

A far da sfondo ai recenti fatti politici e al mercato della musica, si pone il tema delle post-verità, che più che menzogne somigliano a verità costruite dalle dinamiche virali del web in cui l’emotività prende il sopravvento sull’attendibilità delle informazioni che finisce per avere confini estremamente labili. Risulta facile pensare come le campagne politiche del 2016 siano state effettivamente viziate da questi meccanismi, venuti solo parzialmente alla luce, ad esempio, con lo scandalo di Cambridge Analytica, in quanto ogni tipo di consenso – sia politico che artistico – è ormai filtrato e modellato da internet, paragonato in Politics a «una giungla di algoritmi e big data che riflette le emozioni del tecnocapitalismo» (ivi, p. 47).

Strettamente legato a ciò è quella che Fisher ha definito «post-lessia» (ivi, p. 65) ovvero la tendenza a processare velocemente una moltitudine di dati senza comprenderli profondamente, spiegata da Rennis come «un’iperattività pseudo-informativa che sui social si risolve in superficiale meccanismo di condivisione narcisistica di contenuti» (ivi, p. 200). Al tempo del clickbait, ciò che conta sono le visualizzazioni, le condivisioni e l’esposizione che però non sempre vanno a discapito della qualità perché spesso, nel caso del mondo della musica, la propria visibilità è sfruttata a fini di protesta e diffusione estensiva, come successo per il #metoo o con Stormzy quando si chiede dove sono finiti i soldi per le vittime della Grenfell Tower.

In questa epoca crepuscolare Rennis attribuisce alla musica mediata dal web il valore di “nonluogo” (ivi, p. 214) dalle invisibili pareti nostalgiche, rassicuranti e democratiche che in qualche modo permette l’identificazione di un gruppo sociale con un genere, garantendo agli ascoltatori – ormai utenti – l’impressione di aggregazione. Da non sottovalutare poi è il rapporto che si stringe con le app alle quali si concede la tracciabilità, non solo dei propri dati personali ma anche quelli sulle nostre preferenze, sia musicali che politiche. Spesso si tratta di una concessione volontaria ed entusiasta volta a ottenere contenuti sempre più personalizzati, per il desiderio dell’immediatezza nella loro fruizione o forse per la speranza di essere “compresi” dal web. Nel dubbio circa l’utilità a terzi delle nostre attività su internet e i suoi prodotti, Rennis ci fornisce infine in paratesto al suo libro il link di una playlist (spoti.fi/2mgiM7K), appositamente creata su Spotify per darci un’idea del composito mondo musicale che ha argomentato.

Riferimenti bibliografici
Z. Bauman, Il disagio della Postmodernità, Mondadori, Milano 2007.
J.M. Fisher, Realismo Capitalista, Nero, Roma 2017.
F. Rennis, Politics. La musica angloamericana nell’era di Trump e della Brexit, Arcana, Roma 2018.
S. Reynolds, Retromania, Minimum Fax, Roma 2017.

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