Esiste un legame fondamentale, duraturo e profondo che unisce chi è nato lungo gli argini del Po e l’acqua che attraversa il letto di quel fiume. Se ne riconoscono i suoni, i colori, si ricordano i diversi nomi che il fiume prende prima di raggiungere il mare: Po di Maistra, Po di Venezia, Po di Levante, Po di Pila, Po di Goro, così ci spiega Fabri, pescatore nato e cresciuto in una casa sul Delta. “Il Po è sempre bello da guardare, la mattina quando mi sveglio e alla sera prima di andare in casa”, racconta invece Luciano, un anziano signore che vicino a quegli argini ci vive da sempre. È generoso il Po, materno – del resto, John Berger ha scritto che il Po è un fiume che va declinato al femminile. E, tuttavia, quello stesso fiume dalle placide acque – almeno così appare in superficie, è ancora Berger a dirci – è ugualmente capace di furia devastatrice.
Come accadde il 14 Novembre del ’51 quando, ingrossato da cinque giorni di pioggia incessante, il fiume ha rotto l’argine sinistro nei pressi di Occhiobello e ha invaso le terre del Polesine, riversando la sua acqua su campagne e paesi fino alle città di Rovigo, Adria e Cavarzere, e provocando 102 morti e circa 130.000 sfollati. A settant’anni da quell’evento catastrofico che ha colpito il Polesine e cha ha segnato la Storia dell’Italia negli anni della ricostruzione, Andrea Segre firma Po, un documentario scritto insieme a Gian Antonio Stella che prova a raccontare i giorni drammatici dell’alluvione. Anche questa volta il regista intreccia la Storia pubblica alla narrazione individuale, la memoria collettiva a quella intima e personale. Se in Molecole (2020), tuttavia, la cronaca del primo lockdown si legava alla narrazione del rapporto del regista con il proprio padre attraverso l’utilizzo di foto e filmati amatoriali, in Po il regista prova a tramare insieme immagini provenienti dall’Archivio Luce ai racconti di chi, in quel tragico novembre, era solo poco più che bambino/a, o appena adolescente.
Le immagini d’archivio, si sa, possono opporre resistenza, e c’è un rischio, sempre in agguato, che queste falliscano nel loro tentativo di ri-aprire la Storia. Sebbene i filmati dei cinegiornali Luce ci restituiscano scene di indubbia potenza visiva – come le riprese effettuate dall’elicottero che raccontano di un fiume che, slabbrando i propri argini, perde la sua forma naturale assumendone un’altra, quella inquietante del mare impossibile da contenere – le immagini non riescono ad andare, letteralmente, oltre la superficie dell’acqua. È attraverso le parole di Maria, Galliano, Luciano, Fabri, Gilberto e gli altri protagonisti che, invece, riusciamo a cogliere il senso di un’operazione, quella di Segre e di Stella, che non vuole essere la ricostruzione fedele, cronachistica dei fatti, ma che intende penetrare la dimensione più profonda di quel rapporto simbiotico che lega i polesani al fiume. Quella stessa gente che in Cronache dell’alluvione Gian Antonio Cibotto ha descritto così: «Gente indocile la polesana, amara, di poche parole, sentenziosa e amante del vino e delle strambe fantasie; gente violenta, rissosa, eppure piena di abbandoni, capace di avarizie feroci e di squisite gentilezze, portata alla solitudine, ai pregiudizi, alle superstizioni con individualità del tipo toccata dalla follia. Perché in tutti noi, segreto ma avvertibile, esiste un filone di pazzia nordica». Nel rimproverare a giornalisti, reporter, cronisti e radiocronisti l’incapacità a trattare con la gente del luogo, Cibotto sottolineava l’inadeguatezza nell’applicare ai polesani clichè e stereotipi di stampo veneziano – «noi non siamo affatto tipi da liston», concludeva lo scrittore. Segre sembra voler seguire – implicitamente o meno – le indicazioni di Cibotto e lascia, allora, che siano proprio i polesani a parlare.
A ri-emergere dai racconti dei testimoni è l’immagine di vite vissute, fino a quel momento, al m-argine della Storia (e si perdonerà a chi scrive il gioco di parole). Se, infatti, all’inizio degli anni ’50 la nazione stava correndo verso la ricostruzione cercando di lasciarsi in fretta alle spalle le macerie del secondo conflitto mondiale, il Polesine non sembra partecipare delle ottimistiche sorti immaginate per l’Italia a venire. Galliano, per esempio, ci racconta di quando la madre lo mandò a recuperare la testa di un vitello morto di difterite – e che il veterinario aveva ordinato di gettare nel letamaio – per cuocerlo e avere così qualcosa da mangiare durante la Pasqua; Maria, invece, ricorda i mesi trascorsi a fare la mondina, a difendersi tanto dalle sanguisughe che abitavano l’acqua stagnante quanto dalle avances del figlio del padrone – “non hai mai visto i film in televisione? Ecco, era così” dice sorridendo la donna al regista. Esiste dunque un “prima” dell’alluvione, fatto di povertà, di una miseria endemica che accomunava la maggior parte dei polesani – “e la miseria non è mai bella da raccontare”, dice ancora un altro dei protagonisti.
Il 14 novembre “l’acqua ha tremato” – è questa è l’espressione utilizzata da Luciano, mentre Galliano racconta di un sibilo, di un fischio che si era diffuso nell’aria prima che il Po straripasse. Il legame con il fiume è spezzato: non si riconoscono più i suoni, cambia il colore dell’acqua che in quella notte diventa fangosa mentre trascina con sé tutto ciò che incontra sul suo cammino. Se il materiale d’archivio diventa contrappunto alla narrazione operata dai protagonisti, se le immagini degli sfollati, dei sopravvissuti, dei bambini salvati dalla furia dell’acqua sono certo efficaci a restituirci la portata emotiva dell’evento, a farci commuovere, il loro utilizzo sembra volerci suggerire che, da sole, queste non sono abbastanza. È necessario, allora, ri-collocarle all’interno di un nuovo flusso, quello delle parole di chi lì c’era e oggi è chiamato a darne testimonianza. Lino racconta degli spostamenti che dall’ospedale di Adria, in cui si trovava ricoverato, lo hanno portato prima a Cavarzere e poi a Dolo, nel disperato tentativo di sfuggire all’acqua. Perché nessuno credeva che il fiume sarebbe stato capace di così tanta furia e fino all’ultimo in molti si sono rifiutati di abbandonare le case. Lo stesso Luciano ci dice che, sebbene l’acqua avesse raggiunto il primo piano della sua abitazione, loro avevano continuato la loro vita al piano superiore della casa: avevano già vissuto una piena pochi giorni prima, il Po non li avrebbe traditi. Ma, come suggerisce proverbio polesano: “Dove no se crede, l’acqua rompe”.
Le immagini dell’arrivo di De Gasperi, dell’intervento della Croce Rossa e della consegna delle terre per mano del Ministro Rumor rappresentano forse il nucleo problematico del film. I filmati del Luce ci restituiscono, infatti, una visione inevitabilmente parziale e viziata da uno sguardo istituzionale, ufficiale, moralizzante, che sembra intravedere nel disastro l’opportunità di una redenzione umana e di una strada verso l’agognato progresso. Una postura asimmetrica le cui criticità non vengono indagate, ma che rimangono invece sospese all’interno di una tensione irrisolta, mentre il racconto di piccole forme di resistenza che alcuni dei protagonisti ci consegnano non riesce ad aprire alla possibilità di una riflessione sulle problematiche politiche, sociali e culturali che attraversarono il periodo successivo all’alluvione. Maria racconta di quando il prete, avendo sentito cantare lei e le sue compagne “Bandiera Rossa”, negò loro la minestra; Renato, invece, ci dice che mentre era impegnato nelle operazioni di volontariato andò a trovarli Enrico Berlinguer e che in seguito lui si iscrisse al partito comunista, di cui conserva orgoglioso la tessera, mentre la moglie ci tiene a precisare che non sapeva che lui fosse comunista quando si fidanzarono, e che la sua famiglia invece andava a messa. Lo scontro politico che ha impegnato la nazione negli anni della ricostruzione viene qui liquidato nella divisione macchiettistica tra bianchi e rossi, tra chiesa e comunisti, in una contrapposizione poco fruttuosa e che ricorda, invece, le vicende di Don Camillo e l’onorevole Peppone.
Fabri scende dalla barca, getta l’àncora sulla spiaggia e, nel lasciarsi il fiume alle spalle, cammina verso il mare. Verso quell’“acqua amara” dell’Adriatico – come ci dice la voce fuori campo nella scena finale di Gente del Po (1947). Il film di Segre si chiude qui, con quello che sembra essere un omaggio a Michelangelo Antonioni; fuoricampo rimane invece la riflessione sul rapporto tra ambiente naturale e lavoro antropico, tra ecosistema e cambiamenti climatici, che da sempre interessa il corso del Po e il paesaggio deltizio e che oggi appare come sempre più urgente. Mentre le maree si alzano, la portata d’acqua del fiume è vicina alla soglia d’allerta e la foce altera la sua morfologia restringendosi sempre di più: il risultato è un fiume in secca e un Delta ormai malato. E questa è una storia che presto saremo chiamati a raccontare.
Riferimenti bibliografici
J. Berger, Sacche di resistenza, Giano, Roma 2003.
M. Bertozzi, Recycled Cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio, Venezia 2013.
G.A. Cibotto, Cronache dell’alluvione. Polesine 1951, La nave di Teseo, Milano 2021.
Po. Regia: Andrea Segre; sceneggiatura: Andrea Segre, Gian Antonio Stella; fotografia: Matteo Calore; montaggio: Luca Manes, Chiara Russo; musiche: Sergio Marchesini; produzione: Istituto Luce; distribuzione: ZaLab; origine: Italia; durata: 75′; anno: 2022.