Secondo un’opinione diffusa, l’intellettuale ha diritto di parola nello spazio pubblico, perché è qualcuno che sa. Il suo merito, nonché la ragione per cui tutti noi siamo tenuti ad ascoltarlo, consiste nel fatto che egli conosce, più e meglio degli altri, ciò di cui si parla. E siccome l’oggetto attuale del discorso pubblico muta con il mutare delle contingenze storiche, l’intellettuale chiamato alla parola sarà di volta in volta un economista, un medico, un climatologo, uno psicoanalista, un criminologo, un giurista, un sociologo, etc. Non fanno eccezione i filosofi, che in genere vengono chiamati in causa come politologi. Raramente ci si avvede del fatto che questa situazione non costituisce soltanto uno dei tanti sintomi manifesti di come quella che ci ostiniamo a chiamare democrazia sia da considerarsi con maggior diritto oligarchia, ma soprattutto condanna la pratica del pensiero a prendere parte al canto dell’attualità – che naturalmente prevede anche il suo più o meno gradevole controcanto. Con questo non intendo certo riabilitare l’immagine altrettanto trita dell’intellettuale impegnato solo a preservare la propria eburnea verginità. Ma vorrei suggerire che se l’intellettuale non ha da essere il piffero dell’attualità (come un tempo non aveva da essere quello della rivoluzione), né il suo Bastian Contrario, è perché la sua funzione consiste nel dar luogo a qualcosa come il rovescio dell’attualità.
Alle avventure del burattino di Collodi si addice perfettamente il suggerimento che una ragazzina zingara diede una volta a Pina Bausch (come lei stessa racconta in una conferenza del 1999): “Dance, dance, otherwise we are lost”. Pinocchio, infatti, non fa che correre, gettarsi a capofitto in tutte le circostanze che gli capitano e fuggire da ognuna di esse. Anche lui, come Pulcinella e come Hölderlin (a cui non a caso Agamben ha dedicato due dei suoi studi più recenti), sa perfettamente che ubi fracassorium, ibi fuggitorium, ovvero che dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva o ci consente di fuggire. Ma se la stoffa di cui è fatto Pulcinella è quella dell’intemporale che irrompe sospendendo il tempo storico, del gesto in sé, slegato dal prima e dal poi come dall’intenzione e dallo scopo, dell’atto che interrompe l’azione, della commedia della vita che rivela ovunque, una volta chiuso il sipario tragico, la propria ostinata sopravvivenza, la cifra di Pinocchio è piuttosto quella dello sviamento.
Se il burattino sembra finire così spesso sulla cattiva strada, è precisamente perché il suo compito consiste nel fuggire «tutte le antinomie che definiscono la nostra cultura, tra l’asino e l’uomo, certo, e tra la follia e la ragione, ma prima ancora tra il ragazzino per bene (che non è che un adulto immaturo) e il selvatico pezzo di legno» (Agamben 2021, p. 157). Quest’ultimo, in fondo, non è qualcosa di particolarmente significativo, se non in quanto apre uno spazio, che non sembrava esistere, tra l’animato e l’inanimato, tra la vita e la morte, tra la cultura e la natura. Tra l’asino e il bravo ragazzo, «il burattino non è una terza natura […] è, piuttosto, soltanto un vuoto, un varco […] in cui s’infila e sgattaiola lesta una natura né naturante né naturata, una innaturalezza perpetuamente innaturata e insostanziale, per la quale i nomi ci mancano e continueranno – fino a quando ancora ? – a mancarci» (ivi, p. 155).
In questo senso, la vicenda di Pinocchio non è affatto interpretabile come una storia esoterica di iniziazione, a meno che non si intenda che ciò a cui Pinocchio è iniziato consista nella più immanente delle pratiche: quella con cui impariamo a vivere altrimenti da come saremmo tenuti a vivere. Pinocchio – ci spiega Agamben seguendo più il commento di Giorgio Manganelli che le speculazioni esoteriche di Elémire Zolla – «può vivere solo disvivendo, caparbiamente mancando e sfuggendo la propria vita» (ivi, p. 21). Ma come è possibile, continua il commentatore, che si dia «un’iniziazione non a un vivere, ma a un disvivere? La risposta a questa domanda – se fosse possibile trovarla – definirebbe una volta per tutte l’essenza e il significato delle avventure del burattino. E, forse, di ogni avventura umana sulla terra» (ibidem).
Inesausto fuggiasco, Pinocchio ci inizia alla possibilità di disvivere, cioè di vivere sviando la nostra vita, non solo dal momento in cui si mostra ostile a indossare i panni della personcina perbene che molti dei suoi compagni d’avventure vorrebbero cucirgli addosso, ma anche dal momento in cui siamo in grado di percepirlo come via di uscita, cioè come forza capace di fare spazio, là dove non sembrava esservi che prigione. Come il Rosso Pietro della kafkiana Relazione per un’Accademia, anche Pinocchio non cerca la Libertà, ma solo una via di scampo. Di più, il burattino rende esercizio consueto e quotidiano questa ricerca di una via di fuga, insegnandoci che non si fugge una volta sola, ma continuamente: ad ogni svolta della vita è necessario sviare e sviarsi per dismettere gli abiti che noi stessi ci siamo scelti, per tornare a imparare a vivere altrimenti. Quando Agamben ci invita a rileggere Pinocchio, suggerendo che le sue avventure non danno luogo né a un racconto edificante, né a qualcosa come un mito fuori dal tempo, ci invita anche a considerare che il nostro compito è ancora e sempre quello di aprire uno spazio tra l’asservimento all’ordine del discorso e il ritiro in ucronia, di accedere al rovescio dell’attualità.
Giorgio Agamben, Pinocchio. Le avventure di un burattino doppiamente commentate e tre volte illustrate, Einaudi, Torino 2021.