Dopo Carmelo Bene, è diventato impossibile mettere in scena o filmare Amleto (per esempio) senza un lavoro di (ri)-scrittura scenica, pena la ricaduta nell’accademismo, con la scusa della fedeltà al testo. Fedeltà, fedeltà, quanta noia si ha da sopportare in tuo nome! Figuriamoci con Pinocchio. Eppure ogni testo quasi esige d’essere tradito, e solo così può ancora trasmettere valori.
Ora, il film di Matteo Garrone riesce (quasi) nell’impresa di coniugare la fedeltà all’invenzione, a mettere (quasi) in sintonia Carmelo Bene e Luigi Comencini, le maschere del fantastico teatrale e la fisicità della favola neo-realista. Come ci riesce (quasi)? Ognuno di noi nasce Pinocchio e diventa Geppetto, hanno dichiarato giustamente sia Garrone che Roberto Benigni, ed è singolare assistere alla metamorfosi di Benigni che da figlio (di legno) si trasforma in padre (di carne): padre di un altro se stesso, padre del figlio che è già stato, protagonista d’una nuova nascita.
Lui era già stato, del resto, prima che interprete e regista del suo Pinocchio, un amico affezionato della marionetta di Collodi, in versione non animata, in La voce della Luna (1990) di Fellini. Ma il punto è un altro: il film di Garrone, nella sua parte più innovativa, mette in luce e focalizza l’attenzione sul segreto desiderio maschile d’essere agente autonomo del processo della nascita, al posto della donna e senza la sua partecipazione. «Sono diventato babbo!» urla Geppetto per le strade del paese, pazzo di felicità per aver realizzato l’antico sogno della gravidanza maschile. Gravidanza metafisica. Non è la freudiana invidia femminile del pene, ma invidia maschile dell’utero.
A parte Pinocchio, questo antico sogno il cinema aveva già tentato di illustrarlo, se si pensa al film di Jacques Demy Niente di grave, suo marito è incinto (1973) o a quello di Ivan Reitman Junior (1994); ma Garrone mostra come il sogno sia appunto solo un sogno. Il figlio generato senza donna non è che un burattino, anche se si muove, cammina, corre, mangia e compie monellerie. Ama suo padre, ma vorrebbe evitarne la tutela. Odia la scuola, odia la fatica, odia il lavoro. Non vorrebbe che divertirsi e giocare tutto il tempo, a costo di mutarsi in asino. Che i padri, contrariamente a quanto si crede, siano più indulgenti delle madri?
C’è poco da fare: la trasformazione del tronco d’albero in burattino animato (anzi, in marionetta) è opera maschile, dell’artigiano le cui mani sapienti intagliano il legno, ma l’ulteriore trasformazione, dal legno alla carne, è opera al femminile. Solo una Fata dai capelli turchini è capace di compierla. Pinocchio dunque, almeno questo Pinocchio, non è tanto un romanzo di formazione, quanto di tras-formazione, in cui la materia conserva il mistero dell’energia che la anima. È un’energia che non appartiene agli adulti, uomini o donne che siano, fate o falegnami, feroci Mangiafuoco (Gigi Proietti) o soavi (in apparenza) omini di burro, e neppure tanto all’infanzia, quanto ai burattini che rifiutano di crescere, alle maschere teatrali impegnate nel perenne spettacolo del circo della vita. È da questo punto di vista, che il film di Garrone incontra anche i suoi limiti, nel nome d’una fedeltà forse eccessiva al racconto di Collodi.
Però le maschere, malgrado tutto, funzionano. Mettono in scena uno spettacolo popolare, una fiaba da povera gente. Non c’era una volta un Re — c’era una volta un pezzo di legno. Tutto è animato, nel regno magico delle monete che crescono sugli alberi. Tutto è animato e ogni creatura animale, dal Gatto (Rocco Papaleo) alla Volpe (Massimo Ceccherini, anche co-sceneggiatore), dalla Lumaca al Grillo Parlante, dal Giudice-scimmia ai Dottori dalla testa di coniglio, offre lo spettacolo della sua miseria e dei suoi sogni. Fiaba sovversiva, Pinocchio, malgrado il finale edificante. Fiaba che esalta la resistenza dell’immaginazione popolare di fronte a un destino di povertà che sembra senza uscita.
Qui Garrone, complice la fotografia di Nicolaj Brüel, riesce a rendere conto della fisicità d’un mondo contadino, dove le cose più umili sono preziose, hanno ancora uno spessore, un odore, un valore — dove il freddo penetra nelle ossa, il fuoco brucia, il danaro è merce rara e vige ancora la consuetudine del baratto (una giacca e un panciotto per un abbecedario). Nulla si butta via, in questo mondo della penuria, perché tutto prima o poi può tornare utile. Ci si fanno regali? Si, ma solo se ci si vuol liberare, come mastro Ciliegia, d’un ceppo di pino troppo intraprendente.
Era questo il regno della fame, della fame atavica, appiccicata ai corpi come un destino. In una vecchia osteria, all’inizio, a Geppetto danno da mangiare degli avanzi, per pura carità, benché lui si offra di riparare tavoli, sedie e una porta che non chiude bene; poi, al Gambero Rosso, il Gatto e la Volpe mangiano “come lupi”, scontando un lungo digiuno a spese di Pinocchio. Sono due falsi amici, profittano dell’ingenuità del burattino — ma sono anche Maschere della Penuria, che vieta ogni amicizia disinteressata o comunque insegna a diffidare.
Garrone si conferma qui un accanito esploratore di luoghi dove ambientare le favole senza tempo della tradizione popolare (vedi Tale of Tales, 2015). Che poi si curi più di queste scelte, piuttosto che della bellezza dell’inquadratura, è un fatto, una caratteristica del suo cinema, votato, nei casi migliori, alla ricerca di luoghi senza tempo, o sui quali il tempo non è ancora giunto ad allungare le sue mani adunche.
Ne segue anche il ripudio degli effetti speciali tecnologici: anch’essi artigianali, quali potrebbe progettarli magari proprio un falegname, manovrando sapientemente la punta d’uno scalpello. O un artigiano di Cinecittà, capace di reinventare lo stomaco della Balena biblica come quello d’un pescecane affamato. Anche l’animazione, malgrado Walt Disney, ha bisogno delle venature del legno, almeno se non vuole rinnegare la sua appartenenza a un altro cinema, al cinema del Reale.
Pinocchio. Regia: Matteo Garrone; sceneggiatura: Carlo Collodi (da un libro di), Matteo Garrone e Massimo Ceccherini; fotografia: Nicolai Brüel; montaggio: Marco Spoletini; musiche: Dario Marianelli; interpreti: Federico Ielapi, Roberto Benigni, Rocco Papaleo, Massimo Ceccherini; produzione: Rai Cinema, Archimede, Le Pacte; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; durata: 125′.