Perché dedicare quindici anni della propria vita alla realizzazione di un Pinocchio in stop motion? Probabilmente perché esso sarà un’operazione di estetizzazione curativa: non solo dei fatti psichici più importanti della propria vita, ma anche della vita degli altri. Pinocchio condivide, con i precedenti lungometraggi di Del Toro, la volontà di riscrivere un’esperienza traumatica, al fine di esorcizzarla e sfruttarla come un potente mezzo di individuazione del sé. “È la rivisitazione di una storia che pensate di conoscere, ma non è così”, afferma Guillermo del Toro in Guillermo del Toro’s Pinocchio, Handcarved cinema

Infatti, nel corso della storia del cinema, molti si sono serviti della favola di Collodi rimodellandola: da Le avventure di Pinocchio di Comencini, al Pinocchio di Matteo Garrone, passando per quello di Benigni, fino a quello di Zemeckis. Ogni regista, con la propria personale urgenza, ha reso in modi completamente diversi le stesse pagine, testimoniando come gli archetipi favolistici siano fonti inesauribili di simbolismo.

In Il Mondo incantato, lo psicanalista Bruno Bettelheim, evidenzia come la potenza della favola sia quella di riuscire a tradurre, in immagini visive immediatamente accessibili, stati interiori impenetrabili: «La preparazione del terreno per il raggiungimento della piena coscienza e di un intimo rapporto con un’altra persona non sarebbe completa se le fiabe non preparassero la mente del bambino alla trasformazione necessaria per poter amare» (Bettelheim 2003, p. 348).

Le favole, dunque, aiutano i bambini a superare l’angoscia di essere piccoli in un mondo di grandi, insegnando loro come amare e produrre amore. A parere di Del Toro, questo funzionamento, opera anche nella mente adulta: ecco perché, nelle sue opere, non manca mai il carattere mitologico-favolistico. Le favole indirizzate primariamente ai bambini, però, sono scritte dai grandi, esercitando talvolta una forma di trauma sui più piccoli: esse sono manifesti dell’inconciliabilità del mondo degli adulti con il mondo dei bambini e della durezza della realtà del vivere. 

L’urgenza di costruire il suo Pinocchio (evidente fin dal titolo Guillermo del Toro’s Pinocchio) è basata su una lucida e decisa progettualità, che si riversa sia nel contenuto che nella forma: la storia di Pinocchio non mira più a intimorire e a negare l’infrazione delle regole, ma si trasforma in un’ode alla disobbedienza e alla fiducia in sé stessi. È la disobbedienza all’imperativo “Non dire bugie” a salvare Pinocchio e i suoi amici dal ventre del pescecane: dopo una raffica di false bugie, dette appositamente, il lungo naso funge da ponte per scappar via. 

Il capovolgimento del significato tradizionale della favola passa attraverso un duro lavoro di ricostruzione, non solo teorica, ma anche materiale. La tecnica dello stop motion è per il regista la forma più sacra di animazione: nella ricostruzione frame by frame si crea un legame diretto tra pupazzo e animatore, che permette allo spettatore di percepire la materialità dei personaggi e la loro consistenza fisica. Un cinema scolpito a mano, che scolpisce la vita nella durezza di ogni sua venatura, conservando però la spensieratezza del mondo dell’infanzia: è grazie agli intermezzi musical se lo spettatore è talvolta proiettato in un mondo che sembra anche accogliere e non solo far soffrire. 

Pinocchio non è un burattino perfettamente scolpito, ma incompiuto: non si regge in piedi, scricchiola a ogni passo, sul suo corpo di legno grezzo si increspano venature e cicatrici, chiodi fuoriescono dalle spalle, lasciando intravedere anche una leggera asimmetria. Il Pinocchio di Del Toro, infatti, non nasce per regalare a Geppetto il figlio perfetto che non ha mai avuto, ma per sostituire Carlo, l’amato figlio perso sotto i bombardamenti della Prima guerra mondiale. Da un mondo di sospiri e di calore, dove Geppetto è il cittadino italiano perfetto, si passa alla ferocia del lutto patologico, in cui Geppetto è simbolicamente messo in croce dall’impossibilità d’accettare la perdita.

Ciononostante, la vita continua e, fisiologicamente, quando una vita finisce un’altra deve crescere: la nascita di Pinocchio, però, non si configura come un atto d’amore, ma come un atto di violenza pura.  “Farò rinascere Carlo da questo maledetto pino” urla Geppetto, falciando l’albero e intagliando Pinocchio come se stesse menomando gli arti di un essere umano. A notte fonda, il tronco del pino è animato da spiriti antichi che, qualche volta, si intromettono negli affari umani: sdoppiando la tradizionale fatina turchina in due spiriti complementari, Del Toro intende simboleggiare i due lati dell’esistenza, la congiunzione tra la vita e la morte. 

In questo modo, Pinocchio viene traumaticamente al mondo all’epoca del fascismo: Credere, obbedire e combattere” è il motto stampato a caratteri cubitali sulle mura che circondano il paesino italiano. I suoi abitanti, trasformati in sottomessi al servizio del regime, vivono in un’atmosfera di controllo e assoggettamento. Pinocchio, paradossalmente, è il solo non manovrabile: egli rappresenta l’unico bambino vero in un mondo di burattini. I fili che lo dovrebbero comandare sono stati recisi, permettendogli di essere un dissidente, un libero pensatore (“Nessuno può rinchiudermi”, “Ma io non voglio obbedire”). 

Nel mondo dell’innocenza di Pinocchio, dove ogni messaggio è ridotto a un disegno di un sole che sorride, andare in guerra non può che essere un gioco: la simulazione di una battaglia nel campo militare giovanile si trasforma in un’esplosione di colori. Se le battaglie degli adulti si concludono con la morte di una delle parti, questa si conclude con una risata amichevole tra Pinocchio e Lucignolo: “Abbiamo vinto entrambi” esclamano.

Certo, la morte è il lato complementare della vita e Pinocchio la sperimenterà più volte, rinascendo continuamente. L’immortalità, che di primo acchito, può sembrare anche divertente, si trasforma in un eterno ritorno che perseguita Pinocchio: infatti, come affermerà lo spirito: “La vita eterna può recare eterna sofferenza: l’unica cosa che rende la vita umana significativa è la sua brevità”. Al fine di salvare la vita di Geppetto, Pinocchio, esortato dallo spirito, infrange le regole e rinuncia alla sua immortalità: probabilmente, prima o poi morirà anche lui, ma per ora, sta ancora viaggiando per il mondo che lo accoglie a braccia aperte. 

Come tutte le favole, anche quella di Del Toro ha la sua morale: quel che accade, accade, e infine ce ne andiamo. Possiamo solamente fare del nostro meglio per vivere la vita appieno. E fare del nostro meglio, è il meglio che c’è

Riferimenti bibliografici
B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 2003.

Pinocchio – Guillermo del Toro’s Pinocchio. Regia: Guillermo del Toro, Mark Gustafson; interpreti: Gregory Mann, David Bradley, Ewan McGregor, Cate Blanchett, Tilda Swinton; produzione: Netflix Animation, Jim Henson Productions; distibuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America, Messico; anno: 2022; durata: 121′.

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