Una monumentale raccolta di opere di Pino Pascali realizzate tra il 1964 e il 1968, gli anni d’oro della fase scultorea ed espositiva dell’eclettico artista pugliese, morto nel 1968 per un incidente in moto a soli 33 anni, è riunita fino al 23 settembre 2024 alla Fondazione Prada di Milano nella mostra a lui intitolata. Sottolineando l’attualità di un genio che non ha mai smesso di fare scuola alle generazioni successive, il percorso espositivo, che potrebbe fare «pensare al lavoro di diversi artisti», come dice il curatore Mark Godfrey, ha come elemento distintivo e ispiratore il desiderio di mettere in luce “l’esibizionismo” di Pascali, inteso come arte di allestire le esposizioni. «L’esibizionista doveva infondere nuova linfa alla sua opera per ogni mostra, e soprattutto doveva cambiare radicalmente l’approccio alla realizzazione di ogni progetto espositivo».

Pascali era così: voleva «creare con le proprie opere ambienti che fossero più della somma delle loro parti», dedicando all’allestimento di ogni mostra la stessa energia e creatività del lavoro in studio. Nella prima delle quattro sezioni della mostra, cinque ambienti ricreano gli allestimenti originari di cinque personali di Pascali: dalla prima, del 1965, ospitata alla galleria La Tartaruga di Roma – con opere dedicate a momenti della femminilità quali Primo piano labbra, La gravida o Maternità, e altre dedicate ad elementi architettonici come Colosseo e Ruderi sul prato – si passa a quelle della galleria Sperone di Torino (1966) e all’Attico di Roma (1966 e 1968) per concludere con la personale alla Biennale di Venezia nel 1968, profetica consacrazione dell’artista a pochi mesi dalla morte.

Gruppi di opere completamente differenti sia per i soggetti delle serie (armi, animali, pelo e contropelo, botole), sia per i materiali naturali e industriali impiegati. A questi è dedicata la seconda sezione: tela, tintura, eternit, pelliccia sintetica, lana d’acciaio, gommapiuma, parti di automobili, fieno e scovoli sono rappresentati da altre “opere chiave” dell’artista tra cui Barca che affonda, Arco di Ulisse, Pelle conciata, e accompagnati da video illustrativi sui singoli materiali e da riviste e cataloghi che ci riportano nel cuore degli anni ’60 e della pubblicità di quei tempi. Un mondo, quello della pubblicità, che, così come il cinema e la televisione, Pascali ha frequentato per molti anni, come nel caso del lungo sodalizio con la Lodolo Film. Volutamente assenti nell’esposizione attuale, gli elementi della sua immensa produzione di bozzetti, cartoon, disegni, dipinti, schizzi, scenografie per programmi di successo tra cui Studio Uno e Carosello, cortometraggi animati con personaggi bizzarri come I Postero’s o I Killers (rifiutati dalla Algida) sono comunque testimonianza, proprio come le sculture in mostra, di impulsi creativi così impellenti in tanti ambiti diversi che l’apparente frantumazione trova coesione e coerenza in un’estetica postmoderna all’insegna delle contaminazioni.

Il critico cinematografico, e molto altro, Marco Giusti, vincitore del Premio Pino Pascali 2003 con il film Pascali o le trasformazioni del serpente, parla di «trasformazioni rivoluzionarie» apportate dall’artista barese, che ha continuato a «comporre e scomporre le sue opere, nate da materiale di riciclo. Fra arte, pubblicità e tv. Senza grosse differenze di alto o basso. È il principio che lui stesso dichiara, come il serpente della filastrocca che ogni anno cambia pelle, riadattando la pelle che si sta togliendo».

Nella terza sezione altre tre opere di Pascali – tra cui 1 metro cubo di terra dove la terra è solo il rivestimento esterno di un cubo di legno, a ulteriore riprova di quel continuum di predisposizione giocosa, ironica, duplice e spiazzante infusa nel suo lascito complessivo – si rapportano con quelle di una decina di artisti a lui contemporanei, tra cui Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Piero Gilardi, Mario Ceroli, nel ricordo di tre importanti collettive di Roma, Parigi e Bologna.

Particolarmente affascinante è la quarta sezione che – oltre a una nutrita selezione di fotografie che ritraggono Pascali con alcune delle sue opere, come la serie in cui cavalca la grossa scultura Missile “Colomba della Pace” presenta quattro sale ciascuna con un unico pezzo scultoreo accompagnato da una gigantografia a parete in cui Pascali gioca con l’opera di turno: il grande ragno di pelo blu intitolato Vedova blu o la sua versione di Cavalletto o ancora i Cinque bachi da setola e un bozzolo, tra i soggetti più rappresentativi dell’artista. Le foto, di Claudio Abate, Ugo Mulas e Andrea Taverna, non erano, dice Godfrey, «documentazioni di performance né istruzioni su come interagire con le opere», bensì «materiali promozionali», che i redattori trovavano «più intriganti degli scatti formali e composti che documentavano le mostre di altri artisti». Da non perdere il video in 16mm SKMP2 (1968) di Luca Maria Patella con divertenti performance di Pino Pascali in riva al mare, come quella in cui l’artista delimita un piccolo appezzamento di sabbia con bastoni di legno e poi lo ara e semina proprio come fosse un orto.

Al di là del fascino nel quale ci si trova immersi visivamente nel percorso allestito da Godfrey, è stato interessante avere il supporto conoscitivo e suggestivo di Super. Pino Pascali e il sogno americano (2018), un piccolo vademecum ricco di riferimenti iconografici, musicali, letterari, cinematografici, filosofici, sociologici ed economici, per il quale il suo autore Roberto Lacarbonara, profondo conoscitore di Pascali, si è avvalso di molte fonti, tra cui alcuni degli autori inseriti nel catalogo della mostra milanese, al fine di inquadrare Pascali nel contesto storico e artistico italiano e americano.

Ed è con due rimandi alle pagine più divertenti e a quelle più commoventi di quel piccolo libro che concludiamo. Il primo fa riferimento alle relazioni – a tratti addirittura sudditanze, dalle quali però Pascali fu esente grazie alla duplicità del significato, al tempo stesso affermato e negato, di ogni opera o serie – degli “squattrinati” artisti di Piazza del Popolo di Roma con i ricchi colleghi americani, protagonisti dell’invasione a stelle e strisce alla Biennale di Venezia del 1964, l’anno in cui «Venezia e il mondo conobbero Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Jim Dine e Claes Oldenburg. Si trattò di una vera e propria operazione colossale; gli americani, con il loro consueto approccio eccentrico e iperbolico, giunsero con l’artiglieria pesante colonizzando il panorama artistico internazionale». Sembra di vederli, gli “squattrinati”, sconsolati e umiliati benché affascinati, prima sui gradini di Piazza San Marco e poi su quelli di Piazza del Popolo a ragionare sulla propria arte e quella americana, ma anche a confrontare le proprie tasche vuote e quelle piene di dollari della nuova ondata di artisti con cui l’establishment americano aveva sostituito il primato dell’espressionismo astratto di artisti come Pollock e de Kooning.

Le suggestioni più emotive sono connesse alle labbra rosse su sfondo nero di Omaggio a Billie Holiday (Labbra rosse), un’opera che trascende la pur presente allusione alla sensualità e alla razza della famosa e sfortunata cantante, per legarsi indissolubilmente a Strange Fruit, una delle canzoni più lancinanti mai scritte. “Gli alberi del sud producono frutti strani”, recita la prima strofa, “sangue sulle foglie e sangue alle radici, corpi neri che dondolando nella brezza del sud, strani frutti che pendono dai pioppi”. Sono i corpi dei neri linciati e appesi ai rami degli alberi nei violenti stati segregazionisti delle leggi Jim Crow. Rievocando l’esibizione al Café Society di New York nel 1939 durante la quale Lady Day cantò quella canzone per la prima volta, scrive Lacarbonara:

Lei, Billie, con la sua voce malinconica e roca, nata da giovani genitori indigenti in un bordello di Baltimora, testarda nella lotta, dipendente dalla droga, smette le vesti di un'interprete affascinante e profondamente sensuale. Canta a occhi chiusi e, quando finisce, si allontana, senza un bis, non presta attenzione al pubblico, rimasto attonito, colpito da quel racconto così straziante. Così freddo. Ancora una volta, l'America ha prodotto i suoi veleni e i suoi anticorpi. Lady Day è uno di questi. Uno dei figli di Lincoln, uno dei simboli della resistenza e dell'orgoglio (2017).


Riferimenti bibliografici
R. Lacarbonara, G. Teofilo, SUPER. Pino Pascali e il sogno americano, Skira, Milano 2017.

Pino Pascali, a cura di Mark Godfrey, Fondazione Prada, Roma, 27 marzo 2024 – 23 settembre 2024.

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