“Perché sei vestito così, che succede? Vai a un ballo in maschera di mattina?” chiede Don Fabrizio di Salina al nipote Tancredi mentre, davanti allo specchio, si prepara a indossare gli abiti per andare a caccia insieme a Don Calogero. È una delle scene più famose de Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, quella in cui Tancredi confida allo zio che sta per partire, che si sta per unire alle fila garibaldine per combattere Francesco II. Cambiare tutto affinché “nulla cambi”, aggiunge Tancredi: fare la guerra come andare a un ballo in maschera, travestirsi da soldato rivoluzionario per evitare l’istituzione della repubblica di “Don Peppino Mazzini”. Stacco, sei anni dopo, sul set di Medea di Pier Paolo Pasolini. Giasone consegna a suo zio Pelia il Vello d’oro dicendogli che quella pelle di caprone, lontana dal suo paese, “non ha più significato”. Prima di andare a Corinto con la sua nuova sposa però, si compie il trapasso di Medea: le ancelle la denudano, la spogliano del suo abito nero, arcaico, impreziosito da bracciali e orecchini tribali, e la vestono di bianco, le mettono gioielli d’oro, trasformandola in una moderna donna greca.
Un passaggio rituale in cui prende corpo l’atto genitivo del personaggio, la presa in carico del suo ordine simbolico, sociale, culturale. Nel gesto di vestirsi il soggetto abbandona la nudità astratta del corpo, il portato universale e cosmopolitico della sua genericità umana, assumendo su di sé l’habitus storico della sua persona, della sua identità singolare. Perché il vestito iscrive in un orizzonte intenzionale – che ha sempre una natura storica e culturale – il movimento, la volontà, i bisogni che attraversano il corpo e il volto del soggetto. Trasformando la persona in una maschera sociale, l’abito sottrae la singolarità al regime astratto della sua fattezza naturale e la riconsegna verso l’esterno, al mondo e alle sue leggi.
Se questa operazione di esternalizzazione del soggetto nel mondo, oltre che nella vita, è cruciale sul set o sul palcoscenico, dove il “vestito” è il “costume” attraverso cui un attore o un’attrice deve dare corpo a un’identità altra rispetto alla propria, poche figure nella storia del cinema e del teatro italiani hanno contribuito a trasformare il ruolo del costumista come Piero Tosi, la cui opera si sta celebrando in questi giorni al Palazzo delle Esposizioni di Roma con la mostra Piero Tosi. Esercizi Sulla Bellezza. Gli anni del Csc, 1988-2016.
Quella di Tosi è un’attività che copre l’intero arco nobile del cinema e del teatro italiani, dalle collaborazioni con Visconti e Pasolini a quelle con De Sica, Zampa, Camerini, Bolognini, Soldati, Pietrangeli, Ferreri e tanti altri. Film e spettacoli indimenticabili, di cui l’artista toscano ha curato i costumi nel corso di più di mezzo secolo di lavoro (coronato con l’Oscar alla carriera nel 2013): da Bellissima a Le chiavi di casa, da Senso, La donna scimmia, Ieri, oggi, domani, Rocco e i suoi fratelli, Ludwig, alle leggendarie produzioni alla Scala de La sonnambula e La bohème, oltre ai già citati Il gattopardo e Medea. E poi l’attività di docente al Centro Sperimentale di Cinematografia, carica che Tosi ha ricoperto fino al 2016, e al cui lavoro con gli studenti è più specificamente dedicata l’iniziativa romana.
Il costume come maschera della veridificazione sociale del personaggio, come medium principale attraverso cui l’apparire astratto e metastorico del corpo prende posizione rispetto allo spazio e al tempo circostante, costruendo geometrie politiche e relazionali. Luogo di dimora del corpo e allo stesso tempo sua prigione, che ne orienta i movimenti e le pose, sagomandolo e possedendolo. Il costume anche come oggetto a partire da cui si definisce la struttura stessa dell’inquadratura, i suoi spazi e i suoi angoli, le sue stesse possibilità di visione, come nella infinita festa finale de Il gattopardo.
Quella di Tosi è stata un’arte cruciale per comprendere l’evoluzione delle estetiche dello spettacolo novecentesco, e non solo per lo straordinario artigianato del suo lavoro sui modelli, o per la precisione della sua ricerca filologica. È stata un’arte imprescindibile perché ha tradotto, nei modi e nelle forme dell’apparire del personaggio, un immenso lavoro di formalizzazione della realtà in cui il regime della teatralizzazione e della messinscena ha preso il posto di quello mimetico del rispecchiamento (che ha caratterizzato una stagione importante del nostro cinema, nata sulle ceneri dell’esperienza neorealista).
Dietro l’apparente ricostruzione delle forme e dei materiali di tempi ed epoche diverse, la sua è stata in realtà un’operazione di ricostruzione del presente a partire dal passato, di trasfigurazione e riproposizione della Storia come luogo autentico dell’umano, attraverso la creazione di costumi che si sono depositati nella memoria e hanno definito i personaggi stessi che li indossavano. Il lungo mantello che avvolge Ludwig II di Baviera alla sua incoronazione in Ludwig, il bianco del vestito di Gustav von Aschenbach o quello del telo che avvolge Tadzio in Morte a Venezia, il velo nero della contessa Serpieri nel finale di Senso o il corpetto che indossa Nadia prima di essere uccisa da Simone in Rocco e i suoi fratelli: vesti e indumenti come tasselli di un gigantesco dispositivo espressivo di costruzione dell’inquadratura e della scena, tessere elementari di una ridefinizione integrale della realtà e della Storia attraverso il cinema – che scarta da ogni rispecchiamento mimetico – tanto di ispirazione lukácsiana quanto di tipo teatrale ottocentesco, in particolare melodrammatico.
Tosi ha “vestito” la Storia nel senso che ha vestito una realtà pensata sempre come una totalità storica e sociale, attraverso un’estetica paradossale, in cui il puntiglioso sforzo di ricreazione dei costumi rispetto agli ambienti e alle movenze dei personaggi ha corrisposto alla volontà di costruire un piano assoluto della messinscena, di riconsegnare la realtà, presente o passata, nella contingenza finzionale della rappresentazione. E non è un caso che, tra le sue numerose e importanti collaborazioni, il suo lavoro rimanga intimamente legato alla figura e all’opera di Luchino Visconti. A quel tentativo ambizioso e impossibile di ripensare integralmente la vita e la Storia a partire dalla scena e dall’immagine, di ricostruire il mondo secondo i codici del teatro e del cinema. Un immenso gesto espressivo a cui l’arte di Tosi ha rappresentato un contributo fondamentale.
Riferimenti bibliografici
G. Lukács, Scritti sul realismo, Einaudi, Torino 1970.
G. Manzoli, Habitus, in Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, vol. II, a cura di R. De Gaetano, Mimesis, Milano 2015.