Dire che la donna è mistero non vuol dire che tace ma che il suo linguaggio non è compreso;
è presente ma nascosta sotto fitti veli; esiste al di là
di queste incerte apparizioni.

Simone de Beauvoir
Questo è destino: essere di fronte
e poi null’altro e di fronte sempre.
Rainer Maria Rilke

“Ricordi che quando siamo andati al corso preparto ci hanno detto ‘forse cambieremo le carte in tavola e magari quel giorno potrebbe non andare secondo i piani, le cose potrebbero cambiare?’ Stanno cambiando”. 17 settembre. Martha (Vanessa Kirby) è in travaglio e suo marito Sean (Shia LaBeouf) ha appena chiuso la telefonata: l’ostetrica Barbara gli ha comunicato che non potrà assisterli durante il parto in casa, come previsto. Sarà un’altra donna, Eva, a fare nascere la loro bambina. Le cose stanno cambiando, la giornata sta per concludersi in una maniera completamente inaspettata: Sean ha lavorato tutto il giorno sul cantiere dell’enorme ponte che sta per sorgere sul fiume (“Voglio che mia figlia sia la prima ad attraversare questo ponte!”), mentre Martha è reduce dal baby shower organizzato dai colleghi dell’ufficio – “Non è esattamente piacevole”, commenta di fronte a tutte quelle donne che le si agitano intorno con curiosità, ponendole assurde domande sull’altezza del suo pancione. È lei a portare il peso della vita dentro di sé, a non coincidere più con il suo corpo ingombrante, a essere abitata da una presenza estranea che tutti, all’infuori di lei, sembrano riuscire a percepire distintamente.

It’s a girl: lo dicono i festoni rosa, la torta a due piani sormontata da una buffa pupazzetta, lo dice perfino il suo compagno Sean che, per celebrare l’imminente concrezione della nuova piccola tribù (“noi tre”), ha incorniciato alcune ecografie del feto mettendole al contrario, sottosopra, perché già immagina che sua figlia sarà instabile, interessante, affascinante, intelligente, modesta e umile come lui. Eppure Martha fatica a riconoscerla, abbozzata come appare in quelle istantanee nere scomposte, e, durante le fasi più concitate del travaglio, sembra piuttosto (ri)mettersi in dialogo con le frequenze del proprio corpo – disgregato in una tenebra sensuosa di suoni, lamenti, versi animaleschi, odori, umori, spasmi,  contrazioni, nausee – e con tutta una serie di stimoli esterni (il tanfo della spazzatura, la musica, le luci, la prossimità di Sean, a cui continua a chiedere di essere baciata). “È orribile, non ce la faccio! Perché non può uscire subito?!”: Martha soprattutto vuole riappropriarsi di sé, espellere la sconosciuta che si è annidata da qualche parte nel suo ventre, dimostrando a tutti, in primis a sua madre, di essere in grado di farlo naturalmente, senza andare in ospedale. Ma qualcosa va storto, c’è sofferenza fetale: il battito della bambina giunge da quell’altrove invisibile come un’eco distorta – lo strumento dell’ostetrica lo rivela chiaramente. Nessuno vuole pensare al peggio, nei loro animi provati non c’è spazio per quella tremenda eventualità, lo spettacolo della venuta al mondo deve andare avanti. E così, in attesa dei soccorsi, finalmente la bambina riesce a nascere: vivrà solo pochi secondi nelle braccia di sua madre, poi uscirà definitivamente di scena.

Pieces of a Woman inizia così, dopo un prologo di circa 30 minuti, 25 dei quali dedicati alla sconvolgente scena del parto: un unico, fluido, piano sequenza – girato da Benjamin Loeb, il direttore della fotografia, con uno stabilizzatore Gimbal – in grado di rapprendere interpreti e spettatori nello stesso tessuto emozionale immersivo (una sorta di liquido amniotico polivalente), scandagliando il trauma nella sua opacità, disinnescando la dirompenza totalizzante della pulsione scopica per riconsegnarci le soglie più intime del dolore. Il resto del film diluisce il dramma del lutto attraverso i mesi (da ottobre ad aprile), secondo una scansione che coincide con l’avanzamento dei lavori di costruzione del ponte, ma che vuole anche, in qualche modo, ripristinare un senso di ciclicità all’interno del quale le vite dei protagonisti appaiano sincronizzate nuovamente alle stagioni.

Evidentemente i legami diventano il centro propulsore della vicenda, alla luce delle conseguenze innescate dalla perdita: mentre il padre mancato Sean, fomentato dall’algida suocera Elizabeth (Ellen Burstyn), sembra voler intraprendere un percorso canonico di elaborazione del lutto finendo per allontanarsi irrevocabilmente dalla compagna, Martha si mette, probabilmente per la prima volta, alla ricerca di sua figlia, di eventuali tracce della sua presenza nel mondo. Prima c’era, dopo non più: esiste qualcosa in grado di testimoniarne la realtà, seppure effimera, fugace? Dove si trova adesso? Non di certo nell’oscurità metallica dell’obitorio o nella cameretta di legno chiaro rimasta ad attenderla invano, non nella messinscena ipocrita di un funerale, non in un’urna cineraria e nemmeno nel nome scritto male sulla lapide – quell’Ivett che richiama le origini ebreo-ungheresi della famiglia e che le consentirebbe di non essere l’ultima nell’elenco dei nomi, cosa che invece si verificherebbe utilizzando lo spelling americano “Yvette”, preferito da Martha.

Non è nemmeno nel processo mediatico intentato contro l’ostetrica, risultata direttamente coinvolta nelle morti di più bambini. No, non è mai stata in queste cose e sua madre se ne rende conto – perché Martha resta comunque biologicamente una madre, il suo corpo dolente produce latte e, pertanto, continua a essere il corpo di una madre, continua a resisterle. Per questo motivo prova, apparentemente, a fare sparire tutti i falsi indizi, a disfarsi di lei, nella speranza di rincontrare sua figlia in una dimensione di senso più ampia, universale, eterna: lo spazio della metamorfosi, della rinascita primaverile, dei semi che tornano a germogliare, dei fiori e dei frutti (non a caso, l’unico particolare che la donna ricorda del momento in cui ha stretto a sé il corpicino vivo della figlia è un inebriante profumo di mela).

La verità è che non c’è una sola donna “spezzata” in questa storia, Martha è il penultimo anello di una genealogia melodrammatica che contempla una serie notevole di madri e di figlie. In ballo non vi è unicamente la sua integrità vilipesa: i pezzi sono quelli di una madre e di una figlia che sono esistite da qualche parte e che adesso non esistono più (forse). Martha e Yvette, in primis, ma soprattutto Elizabeth e Martha e, ancora prima di loro, la madre di Elizabeth che aveva partorito di nascosto la sua bambina in un capannone del ghetto senza l’aiuto di nessuno, opponendosi in seguito al medico che voleva lasciare morire la neonata perché considerata troppo debole. Così come lei e sua madre avevano sollevato la testa, sfidando il destino e l’orrore della Storia, adesso Elizabeth si aspetta che Martha faccia lo stesso, che combatta per non apparire una vittima, che urli al mondo la sua verità. La scena dello scontro verbale in cui emerge sempre più pienamente l’istanza melodrammatica della “motherhood” – una scena vibrante, calibrata su due prove d’attrice gigantesche, una delle quali è già valsa a Vanessa Kirby la Coppa Volpi a Venezia – è proprio quella in cui Martha rivela che la sua verità, appunto, non ha niente a che fare con il fallimento, con la vendetta, con il clamore: “Si tratta di me, del mio corpo, lo capisci?”.

E il perimetro della rivelazione finale, contrassegnato dalla canonica fase del processo in cui la donna riesce a rivendicare in via definitiva il proprio punto di vista virtuoso, assolvendo idealmente se stessa e tutti gli altri agenti della catastrofe, passa attraverso l’unica vera prova dell’esistenza fisica di Yvette: una fotografia, scattata da Sean, che le ritrae insieme, vive, stremate e avvinte in quel primo e unico abbraccio d’amore. Ecco la traccia analogica, l’impronta incontrovertibile del legame, eterno indice di appartenenza e reciprocità. L’emersione dell’immagine latente nel bagno d’arresto della camera oscura, di fronte agli occhi grati e stupefatti di Martha, corrisponde al vero parto della storia, l’unico a esserci mostrato nella sua interezza. Potremmo addirittura considerare il film stesso – sceneggiato da Kata Weber, compagna del regista, sulla base di un’esperienza autobiografica e prodotto da Martin Scorsese – come una sorta di gravidanza mistica: inizia con una morte nei pressi dell’autunno e termina con l’esplosione della natura in estate, illustrata da un rigoglioso albero di mele, il cui respiro ipnotico continua a vorticare superbamente nell’inquadratura fissa che accoglie i titoli di coda.

Pieces of a Woman. Regia: Kornél Mundruczó; sceneggiatura: Kata Wéber; fotografia: Benjamin Loeb; montaggio: Dávid Jancsó; musiche: Howard Shore; interpreti: Vanessa Kirby, Shia LaBeouf, Molly Parker, Sarah Snook, Ilza Shlesinger, Benni Safdie, Jimmie Fails, Ellen Burstyn; produzione: Little Lamb, Bron Studios; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America, Canada; durata 128’.

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