In every work of genius we recognize our own rejected thoughts; they come back to us with a certain alienated majesty.
Ralph Waldo Emerson
La luna d’estate risplendeva luminosa sulla terra addormentata, mentre lontano da occhi mortali danzava il popolo delle Fate. […] All’ombra di una rosa selvatica sedeva la Regina con le sue Damigelle d’Onore, accanto all’argenteo fungo dove si svolgeva la festa. «Ora amiche mie», disse, «per ingannare il tempo finché questa splendida luna non sarà tramontata, ognuna di noi racconti una storia, o riferisca quello che le è accaduto o che ha imparato nel corso della giornata».
Louisa May Alcott
Scrivere di Piccole donne (in tutte le sue varianti o trasposizioni) è un po’ come sottomettersi a un’estenuante seduta di ipnosi regressiva in cui si è, allo stesso tempo, analista e paziente. Forse perché si tratta del primo romanzo che generazioni intere di lettrici in erba (compresa la sottoscritta) hanno letto proprio come si vede un film: ossia, lasciando che nuove enormi figure invadessero lo spazio vergine dell’immaginazione e lo ripopolassero di senso adulto, esalando dalla parola scritta come fantasmi. Le protagoniste del romanzo di Louisa May Alcott (Meg, Jo, Beth e Amy March di Concord, Massachusetts) sono state le prime in cui, presto o tardi, ci siamo realmente riconosciute, delle formidabili matrici in grado di imbastire la trama archetipale di ogni sorellanza (orizzontale, verticale, obliqua). La loro storia – la storia di quel freddissimo Natale che non sembrerà Natale, senza regali – è quella che, di fatto, ha dato inizio a tutte le storie possibili. Per chi ama scrivere, per chi ama il cinema, e per chi è riuscito a fondere in un unico amore entrambe le cose.
Autrici, personagge, lettrici, registe, attrici, spettatrici: nella fiammeggiante comunità pseudo-narrativa, che discende dalla pioniera capostipite Alcott, si equivalgono tutte e tutte, per qualche motivo, somigliano a Jo – o avrebbero voluto somigliarle o conoscere qualcuno che almeno un po’ le somigliasse. Jo c’est moi, punto. Non c’è intercessione più autentica nel romanzesco alcottiano. Lo sa bene Greta Gerwig, l’ultima sacerdotessa di questo magmatico culto transmediale che, in passato, ha avuto tra i suoi adepti anche George Cukor e Mervyn LeRoy (autori delle versioni cinematografiche del 1933 e del 1949).
In questa sua glamourissima versione, la regista di Lady Bird (2017), autrice anche della sceneggiatura, si cimenta in un rimpasto temporale abbastanza ardito che, oltre a stravolgere la struttura cronologica dei due romanzi originali (Piccole donne e Piccole donne crescono), spinge verso un’originale opacizzazione dei piani del racconto, sfiorando la vertigine della messa in abisso in una chiave alternativa, certamente più contemporanea: e se il “finale matrimoniale” del romanzo (nel film) scritto dall’indomabile Jo March fosse in realtà un compromesso editoriale? Ha davvero sposato il professor Bhaer e fondato un collegio o si tratta solo di un escamotage appartenente alla finzione letteraria per preservare la sua condizione di donna libera e coerente? Il mercimonio c’è stato? Le piccole donne, crescendo, devono per forza arruolarsi nell’esercito mercenario delle brave mogli (Good Wives era il titolo imposto, in un primo momento, dall’editore alla stessa Alcott, che si è sempre dichiarata pentita di aver fatto sposare Jo)? Il vero segreto di Jo riguarda l’amore per un uomo o, piuttosto, quello intimo, autocentrico, trascendentale (in senso emersoniano) per il suo romanzo?
Il dubbio non viene sciolto – è fin troppo evidente che la scrittura di Gerwig celebri il personaggio come alter ego dell’autrice – e la fotografia rafforza lo stato di indecidibilità tingendo di sfumature calde le scene riferite al passato bucolico (l’età dell’oro, la luce accogliente del focolare domestico che riverbera sulla lana e sulle crinoline, quella abbagliante del sole che ravviva i prati fioriti e che incendia la natura di mille bagliori fatati) e di atmosfere più fredde il periodo che si approssima al presente filmico (la valle dell’ombra, la morte, il gelo metropolitano di New York). Anche la scelta del cast abbraccia questa tendenza, ma in senso per certi versi opposto: non ci sono cambiamenti significativi nella fisionomia delle quattro sorelle, né tantomeno si è scelto di far recitare attrici diverse per uno stesso ruolo, come avviene per la Amy della versione diretta da Gillian Armstrong (1994), interpretata prima da Kirsten Dunst, nella fase in cui è una bambina, e successivamente da Samantha Mathis.
L’impressione è che queste fulgide creature debbano restare sempre “piccole”, giovani, eterne – cristallizzate nelle sembianze fanciullesche, ma ipersofisticate, di attrici come Saorsie Ronan (già Lady Bird per Gerwig) ed Emma Watson. L’effetto è ancora più stridente sui due personaggi maschili principali: l’efebico Laurie Lawrence di Timothée Chalamet e l’inedito Friedrich Bhaer di Louis Garrel – è la prima volta che il marito di Jo viene rappresentato come un quasi coetaneo e non come un uomo molto più maturo di lei. Vezzo estetizzante o pura e semplice furberia di casting? E se le piccole donne di Gerwig non fossero mai cresciute? La verità è un’altra, temo.
Forse nel frattempo siamo cresciute noi, che ormai ci identifichiamo più facilmente con la mitezza disincantata dei quarant’anni della madre Marmee (Laura Dern) – lontanissima dalle virago a cui l’attrice ci ha abituato nelle ultime stagioni, dalla Renata Klein di Big Little Lies (2017-2019), alla cinica avvocatessa divorzista di Storia di un matrimonio (2019) – e con il pragmatismo bisbetico dell’immarcescibile zia March (Meryl Streep), secondo la quale una donna ha tre possibili alternative se vuole sopravvivere in società: sposare un uomo ricco, prostituirsi o fare l’attrice.
Rispetto all’ultimissima trasposizione televisiva – una dimenticabile miniserie in tre puntate prodotta dalla BBC del 2017 con Maya Hawkes nella parte di Jo – l’operazione compiuta da Greta Gerwig ha il pregio di non essersi adagiata sulla soglia monumentale del progenitore letterario, né tantomeno di averlo pedissequamente scimmiottato. Il film si inserisce perfettamente nel flusso immaginifico della saga in maniera non scontata, mantenendo una propria peculiarità estetico-formale, soprattutto grazie a una sceneggiatura solida e raffinata che riesce a dare una nuova carica al materiale esplosivo di partenza. Perché Piccole donne è tante cose: un grande romanzo (anzi due), un film (almeno quattro in realtà, più un paio di serie televisive e una versione anime), un romanzo nel romanzo, un romanzo in un film. Siamo noi. Alcott è Jo. Gerwig è Alcott… e Jo. Jo è Saorsie Ronan. Jo è Lady Bird. Jo sono io…
La seduta è terminata. Ora può svegliarsi.
Piccole donne (Little Women). Regia: Greta Gerwig; sceneggiatura: Greta Gerwig; fotografia: Yorick Le Saux; montaggio: Nick Houy; musiche: Alexandre Desplat; interpreti: Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh, Eliza Scanlen, Laura Dern, Timothée Chalamet, Meryl Streep; produzione: Pascal Pictures; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 134′.