Sólo pinto lo que veo.
Quizá lo he visto o lo he sentido de forma diferente en otras épocas de mi vida,
pero nunca he pintado algo que no haya visto o sentido.

Pablo Picasso

Il rapporto con l’antico in Picasso va oltre l’imprescindibile formazione accademica, è un legame forte, quasi originario. Il punto di partenza della rivoluzione artistica di cui sarà l’indiscusso artefice. È un rapporto che nasce molto presto, grazie alla precoce e proficua formazione che già a nove anni lo vide confrontarsi con la riproduzione di un Ercole con la clava esposto nel corridoio di casa, da lui definito, in una conversazione con Hélène Parmelin, non «un disegno infantile, ma un vero disegno che rappresentava un Ercole con la clava» (AA.VV. 2018, p. 120).

Il padre José Ruiz y Blasco era docente di disegno e da Malaga si trasferì con la famiglia a La Coruña per insegnare presso la scuola di Belle Arti, quando Pablo aveva solo dieci anni. Il giovane artista crebbe tra calchi di statue classiche, modelli di gesso, incisioni, e studiò presso la scuola dove insegnava il padre prima di trasferirsi alla Escola de la Llotja di Barcellona. Nel corso di questi anni di formazione si esercitò in disegno di figura e ornato, copia da modelli di gesso e disegno dal vero. Tra questi, di fondamentale importanza, è lo studio accademico realizzato a tredici anni sulla figura del fauno che, come l’Ercole, diverrà uno dei temi fondamentali del suo repertorio, costruito attraverso la riproduzione dal vero delle antichità greca e romana che, oltre a favorire l’apprendimento del chiaroscuro e delle ombreggiature, lo condurranno nel pantheon dell’antico e del mito per la rielaborazione nell’universo del suo lessico artistico.

Dopo lo studio accademico sarà la volta del confronto diretto con le opere e il luogo fondamentale di questi incontri sarà il Louvre, che frequenterà ripetutamente successivamente alla prima visita documentata nel 1900, con un interesse indiscusso e noto nel mondo artistico al punto da essere descritto dallo scrittore e pittore Ardengo Soffici come il movimento di un «cane alla ricerca del suo osso» per il suo vagare tra le opere antiche (AA.VV. 2018, p. 167). Secondo Pascal Picard, Picasso seguiva la logica del ricercatore, non del collezionista, con curiosità e, grazie anche alla formidabile memoria visiva, riusciva ad assimilare le opere viste nei musei e a dar loro nuova vita nella propria produzione artistica. Oltre al Louvre altro momento fondamentale fu sicuramente il viaggio che lo condusse nel 1917 in Italia, prima a Roma, poi a Napoli e Pompei finalmente al confronto con i luoghi di quella sincerità dell’arte romana che tanto apprezzava per l’autentica semplicità.

Dagli effetti degli incontri di questo viaggio nasce l’idea (non del tutto originale, se confrontata con Picasso. Metamorfosi del 2018-19 al Palazzo Reale di Milano), di celebrare il cinquantenario della morte di Picasso con una mostra che intende sottolineare, come ricorda il direttore Paolo Giulierini, «l’assoluta continuità del pensiero artistico fatto di lasciti e rielaborazioni innovative» grazie all’esclusiva possibilità di offrire il «più raffinato dialogo mai composto fra i disegni e le opere del Maestro e le statue e gli affreschi delle collezioni Farnese e pompeiane», e che trova nella riapertura della sezione “Campania Romana. Sculture e pitture da edifici pubblici”, nelle sale nell’ala occidentale chiuse da cinquant’anni, un ulteriore motivo di celebrazione.

L’esposizione, curata da Clemente Marconi, è ospitata nelle sale della collezione Farnese. Da una parte racconta i soggiorni napoletani dell’artista e le sue visite all’allora Museo Nazionale di Napoli, dall’altra il confronto tra le opere di Picasso (appartenenti alla Suite Vollard, prestito del British Museum di Londra, del Museo Picasso di Parigi e delle gallerie Gagosian di New York) e i capolavori della collezione.

Interessante l’allestimento del percorso espositivo che ci conduce come alla scoperta di una collezione privata. I disegni dell’artista non sono messi in mostra per una visione a distanza collettiva, ma nascosti in teche a forma tronco piramidale che impongono allo sguardo una visione riservata, intima. Sicuramente il viaggio in Italia fu importante, non solo per le opportunità e gli stimoli creativi offerti dalle opere e dai luoghi osservati e visitati, ma anche per i compagni di viaggio che, come si ricorda nel pannello di apertura della mostra, erano Sergei Diaghilev, Jean Cocteau, il coreografo Léonide Massine, Igor Stravinsky, Ernest Ansermet a seguito dei Ballets Russes.

Jean Cocteau scattò alcune fotografie di Picasso in compagnia di Massine a Pompei, oggi conservate al Musée National Picasso-Paris: una, nell’atrio della casa di Marco Lucrezio Frontone, li ritrae seduti, incorniciati ai lati rispettivamente dalle teste di Arianna e Bacco, sui gradini rivestiti in marmo della fontana. Sullo sfondo, tra di loro, inserito in una nicchia rivestita da mosaici, un sileno che regge un otre dal quale in origine sgorgava acqua. L’altra, invece, scattata nei pressi della fontana dell’Abbondanza, mostra Massine appoggiato sulla pietra dove è scolpito un volto dalla cui bocca zampillava acqua, mentre Picasso è seduto accanto ad essa e si accende una sigaretta. Pascal Picard nel saggio Da Picasso al Louvre. Tra greci, iberi ed etruschi evidenzia come queste fotografie abbiano costituito una base per la creazione di due dipinti le Trois Femmes à la fontaine del 1921 e La Flûte de Pan del 1923, in un’epoca in cui Picasso tornò a una fase più classica dopo quella intensa del cubismo analitico. Le lussuose ville romane di Pompei e l’evocazione nei loro affreschi e nelle sculture – tra fauni, sileni, baccanti – del mondo orgiastico entreranno a far parte del linguaggio artistico del maestro malaguegno. L’incontro con l’antico di Picasso è dunque un’esperienza fondamentale che lo accompagnerà nel corso della sua lunga esistenza e, probabilmente, il contatto diretto con le opere antiche avrà favorito il ritorno a una fase classicista proprio tra il 1917 e il 1925. In questo periodo si assiste, infatti, oltre che a un ricorso a forme più morbide, tridimensionali, spesso anche monumentali, anche a un richiamo alle colossali sculture della collezione Farnese e in particolare all’Ercole che continuò, quindi, ad affascinare l’artista.

La produzione che seguì l’esperienza del rapporto diretto con l’antico segnò sicuramente una frattura, seppur temporanea, con la bidimensionalità e la spersonalizzazione della prima fase cubista. Ma l’apparente incongruenza del suo percorso artistico va pensata come «inestricabile da conflitti, lacerazioni e metamorfosi; essa suggerisce che nel confrontarsi con l’ubiquità e il polimorfismo dell’oeuvre picassiana, discontinuità, salti e rotture sono delle nozioni molto più utili di quelli di finalismo e progresso costante» (Guercio 2017, p. 112).

La memoria di Picasso si andò progressivamente ad appropriare di un repertorio classico. «Se c’è qualcosa da rubare, lo rubo» diceva e le incursioni nelle sale delle collezioni classiche del Louvre, la visita al Museo di Napoli e a Pompei, la collezione di fotografie, cartoline, libri e riviste attraverso cui entrò in contatto con le opere della Grecia mai visitata, arricchirono il suo immaginario di un alfabeto iconografico e simbolico. L’antico per Picasso costituisce un altro elemento di contatto col reale, al quale, nonostante l’approccio eclettico all’arte che lo porterà ad attraversare diversi linguaggi, manterrà fede rievocando la concretezza già professata da Courbet. Come ricorda De Micheli, Gertrude Stein «che ha seguito attentamente l’intero periodo cubista, ha scritto che Picasso non s’interessava dello spirito perché era troppo occupato con le cose. La validità obiettiva del reale è dunque il caposaldo della sua poetica, quello che gli ha sempre permesso di ritrovare se stesso, rompendo di volta in volta il cerchio delle formule, dove, non di rado, ha corso il rischio di rimanere chiuso» (De Micheli 2017, p. 226).

Lo scenario antico va letto anche come «eco dei propri dubbi esistenziali. Quell’iconografia riusciva a sublimare i suoi tormenti più intimi, permettendogli di aggirare una storicità aneddotica e di collocare la propria vita nel territorio di un mito» (AA.VV. 2018, p. 95). E di questo territorio sicuramente fanno parte le allegorie del Minotauro, che costituiscono il fil rouge delle incisioni della Suite Vollard qui esposte, che hanno permesso all’artista «di dare forma al proprio mito egoico, quello del maschio dalla virilità sovradeterminata che assale una giovane vergine un po’ spaventata» (ivi, p. 96).

Nella prima sezione ci accoglie, questa volta al di fuori della teca, l’unico olio su tela, la Femme assise (Donna seduta) del 1920, monumentale figura di donna seduta dalle forme piene, con una veste che richiama il chitone greco, dalle sobrie pieghe che alludono al panneggio architettonico dell’himation dell’Afrodite Sosandra esposta nelle nuove sale dell’ala occidentale. Lo sguardo perso della donna sembra replicare la pensosità dell’Ercole che le volge le spalle. In realtà, il dipinto realizzato a Roma costituisce il ritratto della ballerina Olga Kokhlova – che sarebbe poi divenuta la prima moglie dell’artista, ma il gigantismo delle forme e lo sguardo pensoso sicuramente rimandano all’Ercole, che già faceva parte del suo repertorio di immagini classiche, ma anche alla «esperienza della plastica arcaica e negra e del primo cubismo» (De Micheli 2017, p. 228).

Nella seconda sezione, invece, le incisioni dialogano direttamente con i capolavori della collezione Farnese, in primis con l’Ercole che ispirò la serie di acqueforti intitolata Studio dello scultore (1933-34) e con il quale l’artista maturò una sorta di ossessione-identificazione, come sostenuto dal suo principale biografo, lo storico dell’arte John Richardson. In queste incisioni, infatti appaiono più volte teste di dimensioni colossali che contemplano statue femminili, che a loro volta richiamano l’Hera Farnese e l’Afrodite accovacciata.

Ma l’indiscusso protagonista di questa seconda parte del percorso espositivo è sicuramente il Minotauro: la Minotauromachia VII, Minotauro accecato guidato da una ragazzina di notte, Minotauro accecato guidato da una ragazzina – III, Minotauro morente, Minotauro vinto, Minotauro con una coppa e ragazza, Minotauro ferito – VI si susseguono nella penultima sezione intitolata Picasso e il Minotauro che circonda il monumentale Toro Farnese. Queste incisioni, realizzate tra il 1933 e il 1935, alternano un tratto più lineare ed essenziale a uno più cupo, dall’atmosfera quasi piranesiana, e rappresentano un’ulteriore riscrittura da parte dell’artista del mito, una riscrittura dove il Minotauro soccombe, viene accecato e guidato da una bambina.

Pascal Picard ha letto in queste tetre rappresentazioni del Minotauro una relazione tra la Minotauromachie e le antiche gigantomachie: la «scrittura di una mitologia picassiana che attinge alla cultura della tauromachia. Come un trait d’union tra la Spagna e l’antichità, Picasso inventa un linguaggio iconografico metaforico al servizio di un’ideologia politica che denuncia l’ascesa del fascismo» (AA.VV. 2018, p. 46). L’antifascismo e l’antifranchismo sono un tema fondamentale dell’opera di Picasso e il ricorso al linguaggio elaborato a seguito dell’esperienza con l’antico anche per le opere di denuncia politica dimostra, ancora una volta, il ruolo fondamentale, attivo che il rapporto con l’antico ha avuto nella sua pratica artistica.

Lo svolgimento creativo di Picasso non è stato né rettilineo né tranquillo. Anche i cosiddetti periodi o epoche non valgono molto di più di schematiche indicazioni: infatti appaiono, scompaiono, sono ripresi, rifusi, aumentati da nuove esperienze, e così via. Ma sempre, in Picasso, riemerge la preoccupazione per l’uomo, preoccupazione che finisce sempre con il coagulare intorno a sé la molteplicità delle esperienze e renderle attive. Picasso concepisce l’arte solo come mezzo espressivo, assolutamente non come qualcosa che abbia valore in sé. In questo senso probabilmente la definizione più giusta di Picasso ce l’ha data il suo amico Manolo: «Per Picasso la pittura non è che l’accessorio» (De Micheli 2017, p. 230).

Riferimenti bibliografici
AA. VV., Picasso. Metamorfosi, P. Picard a cura di, Skira, Milano 2018.
E. Bernadac, A. Michaël, Picasso. Propos sur l’art, Edición de Gallimard, Parigi 1998.
M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Universale Economica Feltrinelli/Saggi, Milano 2017.
G. Guercio, Il demone di Picasso. Creatività generica e assoluto della creazione, Quodlibet, Macerata 2017.

Picasso e l’antico, a cura di C. Marconi, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Napoli, 05 aprile 2023 − 27 agosto 2023.

Tags     Napoli, Picasso, pittura, realismo
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