George A. Romero
La terra dei morti viventi (2005).

Come spesso accade con la morte degli artisti, la conclusione del percorso esistenziale sortisce curiosi effetti di soddisfazione ermeneutica. Intendiamoci: nessuno è sospettabile di essersi allietato della scomparsa di un grande autore, tuttavia è come se la fine della vita, pasolinianamente, autorizzasse critici e studiosi a mettere immediatamente in prospettiva l’opera del regista.

Nel caso di George A. Romero, sulla stampa specializzata e su quella specialistica, abbiamo trovato, nei giorni immediatamente successivi al lutto, fior di analisi, tutt’altro che superficiali, del suo cinema. Ovviamente ad essere privilegiata è stata la questione tematica legata alla figura del non-morto. Giudicata di volta in volta militante, politica, simbolica, allegorica, meta-testuale e così via, la figura dello zombi sembra aver catalizzato la maggior parte degli interessi, non foss’altro che per averne fissato l’icona dal 1968 per tutti gli anni a venire. La cinefilia, per esempio, chiama alla dimensione esperienziale lo zombi cinematografico – per la cinefilia, sempre, de te fabula narratur. Per fare un esempio non accademico, nell’editoriale del settimanale Film Tv (n. 30), Giulio Sangiorgio scrive esemplarmente:

È impossibile non pensare a come i suoi morti viventi raccontino un rapporto radicalmente differente con la fine. Come se Romero, con quei revenant, dicesse di una società in cui la morte esiste, certo, ma è rimandabile. Ed è proprio quella, la malattia. Come se tra noi e la morte ci fosse uno stato intermedio. Lo zombi. A cui resta un che d’umano. Una scintilla, forse. La fame (p. 3).

La lettura meta-testuale immagina invece che lo zombi sia il cinema: già Enrico Ghezzi ipotizzava che i film restaurati in fondo potessero essere considerati il ritorno dei morti viventi nel mondo del cinema (chiedendosi ulteriormente se il cinema tutto non fosse una parata di zombi su grande schermo). E sulla questione politica – sorretta e sviluppata esplicitamente da Romero fin dal finale del suo primo La notte dei morti viventi – non c’è nemmeno bisogno di insistere.

Quel che è mancato, ieri come oggi, è l’analisi della componente stilistica, da non intendersi come banalmente formale (l’iconografia è alla base di quasi tutte le disquisizioni di cui sopra). Le operazioni linguistiche di Romero nei suoi film sono tra le più sorprendenti del nuovo cinema hollywoodiano, contesto nel quale è sempre bene inserire i film del regista, insieme ad altri – meno duraturi – fenomeni del new horror anni Sessanta/Settanta (da Wes Craven a Tobe Hooper).

Romero, almeno nel periodo centrale e più applaudito della sua carriera, non ama muovere la macchina da presa. Utilizza inquadrature brevi e fisse, poi lavora a un montaggio serrato. Questa idea di lasciare il proscenio alla traumaticità di ciò che vediamo ne fa un paradossale esempio di trasparenza di regia, che rende questa scelta del tutto solidale con la pan-visibilità dell’orrore e delle viscere che hanno rappresentato il suo marchio di fabbrica (oltre che, naturalmente, l’innalzamento dell’asticella cui tutti, in seguito, si sono dovuti adeguare). Il film-chiave in questo senso è La città verrà distrutta all’alba, dove gli elementi della paranoia settantesca e dell’apocalittismo letterario statunitense, vengono messi in scena attraverso un apparato di regia che definiremmo clinico, una sorta di sintassi marziale e implacabile fatta quasi esclusivamente di inquadrature fisse e depurate.

Il più volte elogiato realismo grafico, compreso quello degli ambienti urbani e sociali, ne è conseguenza, non causa. Se Martin/Wampyr (1977) a tratti può apparire un documentario su Pittsburgh è perché Romero lavora sulla credibilità e sulla precisione antropologica e urbanistica, più che sull’immaginario e sui tratti più antirealisti del cinema horror, la cui tradizione pare interessargli davvero poco. Ed è forse questo il motivo per cui l’incontro tra due artisti che si stavano simpatici, Romero e Dario Argento, era destinato inevitabilmente a dare frutti incongrui: materico e hardcore Romero, lirico e manierista Argento.

Nella storia stilistica dell’horror moderno, Romero deve dunque comparire non solo come fondatore dell’iconografia decadente dello zombi che caracolla e viene verso di noi (le soggettive propongono dunque un avanzamento della morte verso lo spettatore: anche qui implicazioni a non finire), ma anche per le opzioni stilistiche. Come le ombre di Nosferatu sul muro e le strade sghembe di Caligari (non a caso cinema muto centripeto, a macchina principalmente fissa, dove la dimensione iconografica teneva il centro dell’inquadratura, anche per metonimia), lo zombi che attraversa l’inquadratura di Romero può solo traslarsi via montaggio, perché la macchina da presa non osa seguire i morti.

Anche gli zombi di Romero appaiono oggi tappe di un catalogo dell’occulto e del soprannaturale e soprattutto di quella storia della bruttezza nell’arte cui Umberto Eco attribuiva un ruolo decisivo nella rottura dei canoni e nel progresso della cultura.

Riferimenti bibliografici
C. Bartolini, a cura di, George A. Romero. Appunti sull’autore, Bietti, Milano 2016.
U. Eco, Storia della bruttezza, Bompiani, Milano 2010.
E. Ghezzi, Paura e desiderio. Cose (mai) viste. 1974-2001, Bompiani, Milano 1995.

Tags     George A. Romero, zombi
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