A sentir nominare “Perry Mason”, il pensiero corre all’epoca classica della serialità televisiva, quando il noto avvocato difensore interpretato da Raymond Burr risolveva un caso ad ogni episodio. Questa pietra miliare della serialità in televisione è, in realtà, solo un capitolo – per quanto iconico – di una storia assai più lunga, che parte negli anni trenta con i romanzi scritti da Erle Stanley Gardner e arriva fino all’ultima produzione seriale HBO. In questa nuova versione, tuttavia, assistiamo a un cambiamento piuttosto consistente sia nella sostanza del protagonista eponimo che in quella della serie stessa. Se il Mason di Burr era prima di tutto una figura narrativa – per quanto ben caratterizzata dal rassicurante physique du rôle di Burr – che non indulgeva troppo nell’approfondimento del personaggio, il Mason interpretato da Matthew Rhys è prima di tutto una figura umana, fragile e introspettiva. Come il suo personaggio, anche la serie stessa ha cambiato pelle, adattandosi alle forme delle televisione complessa e, in particolare, calandosi tra le ombre del noir.
In questa impresa, la collocazione della storia nella Los Angeles degli anni trenta, così finemente rappresentata nei suoi splendori (di costumi e ambientazioni) così come nelle sue miserie (morali e sociali), è la pietra angolare su cui si sorregge l’intera impalcatura narrativa e stilistica di questa riscrittura, e per due ragioni. Innanzitutto, realizzando un prequel della serie classica, Perry Mason sfrutta l’espediente del diverso cronotopo della storia per costruire un sontuoso e a tratti tragico tableau vivant dell’epoca. La scelta di attingere ad alcune marche rappresentazionali del period drama e di spostare la vicenda nella California degli anni trenta offre la possibilità di dispiegare appieno una magnificenza visiva – che il cospicuo budget di circa 74 milioni di dollari rende possibile – ostentata fin dai primi episodi.
Accanto, infatti, ad elementi quali una struttura narrativa dickensiana, personaggi complessi e sfaccettati, multi-protagonismo e uno stile visivo cinematico, la cura elevatissima della ricostruzione d’ambiente è un fattore decisivo per l’identità stessa della serie come prestige drama e il suo differenziarsi dalla precedente tradizione. La ricerca di legittimazione artistica attraverso la messa in scena e la rappresentazione estetizzata e compiaciuta di questo spaccato di vita anni trenta, tuttavia, non sarebbe così efficace senza l’intervento, tanto sul piano iconografico quanto su quello narrativo, dei crismi nel noir. La seconda ragione per cui questa particolare ambientazione gioca un ruolo così centrale nell’economia di Perry Mason, nella sua significanza culturale e nel suo rapporto con la precedente trasposizione televisiva, va proprio cercata nel modo in cui la origin story del celebre avvocato viene noirizzata.
Quello della noirizzazione (Locatelli 2017) è un fenomeno emerso sulla scena culturale degli ultimi anni, assumendo particolare rilievo nella serialità televisiva “di qualità” e in quella prestige. Si tratta, in buona sostanza, di un processo di dispersione tramite cui le forme narrative, iconografiche, stilistiche e tematiche del noir sono divenute centrali nella produzione culturale – e, nello specifico, televisiva (Steenberg 2017) – del nostro tempo, tali per cui alcuni stilemi associati al noir classico sono penetrati, creolizzandosi, in altre forme narrative. Serie quali Fargo, True Detective, The Killing o le fumettistiche Gotham e Jessica Jones sono solo alcuni dei risultati di questa contaminazione della serialità televisiva con quelle atmosfere, quei topoi narrativi e quelle costanti stilistiche e tematiche riconducibili alla sfera del noir.
Perry Mason, tuttavia, offre un esempio di noirizzazione che eccede di gran lunga quella che possiamo rilevare nei titoli precedenti. Questa esacerbazione della vena noir della serie è data, innanzitutto, proprio dall’ambientazione negli anni trenta: nel periodo cui Raymond Chandler, Dashell Hammett scrivevano i capolavori del genere hard-boiled e sullo sfondo di una metropoli bifronte, che nasconde sotto uno scintillante strato di perbenismo e (finto) progresso sociale un’anima profondamente corrotta, Perry Mason è un private eye disilluso, cinico e disincantato degno della più pura tradizione noir, un uomo che si muove al confine della legalità nei bassi fondi di una città viziosa. Accanto a lui si situano poi tutta una serie di figure quasi da manuale: donne misteriose e affascinanti come Sorella Alice McKeegan, poliziotti venduti e malvagi come il detective Joe Ennis, innocenti perduti come il piccolo Charlie Dodson o innocenti (che poi così innocenti non sono) da salvare, quale è Emily Dodson. Il richiamo alla tradizione noir risulta così fin troppo evidente, quasi la serie volesse volutamente e dichiaratamente porsi come messa in scena o, per meglio dire, messa in mostra di tutti quei cliché comunemente associati al noir.
Inoltre, l’impiego di tali stilemi raggiunge il manierismo se lo si legge filtrato attraverso la lente del confronto con la serie precedente. Perry Mason è, per l’appunto, il frutto di una sapiente strategia metanarrativa, la quale ribalta, sfruttando le caratteristiche del noir, le logiche narrative e figurative della serie originale: laddove la serie classica era una narrazione strettamente episodica, di tipo procedurale e basata su un personaggio carismatico in grado di risolvere sempre la situazione per il meglio, la serie di Rolin Jones e Ron Fitzgerald è il suo opposto, proponendosi come una narrazione continua, profondamente noir nello stile e nelle forme, e il cui protagonista è un antieroe, un perdente che necessita sempre dell’aiuto altrui (in particolare quello della caparbia e risoluta assistente Della Street, oltre che quello di molti altri personaggi quali l’amico investigatore Pete Strickland o l’avvocato Hamilton Burger) per risolvere la situazione.
È evidente come questa riscrittura, perfettamente conscia dei linguaggi stilistici che impiega, si ponga volutamente in netto contrasto con la serie precedente. Del resto, nel momento in cui Perry Mason compie un’operazione di ricostruzione della vicenda del noto avvocato simbolo di una certa stagione della serialità televisiva e della televisione in generale, compie anche un’opera di decostruzione di quei codici che hanno reso la serie originale un cult.
Tuttavia, in questo atto che vorrebbe essere di presa di posizione consapevole nei confronti della serie (e della televisione) precedente, Perry Mason rivela un suo limite. La metanarrazione e la noirizzazione portata a volte all’eccesso non solo tradiscono una certa ansia di compiacere il palato fino del pubblico e di “risaltare nel mucchio”, puntando su quegli elementi che investirebbero la serie di una sua legittimità artistica, culturale e morale, ma sono anche sintomatici di un fraintendimento delle implicazioni sociali e politiche che il noir ha sempre avuto (Corcuff 2017, Martignani 2018).
La serie è sicuramente attenta alla rappresentazione di certe tematiche oggi scottanti, come per esempio la questione razziale, incarnata dal poliziotto di colore Paul Drake e dalle vessazioni che lui e la sua famiglia subiscono, oppure la questione di gender, con la figura di Della Street e soprattutto di Sorella Alice, entrambe soffocate nella loro emancipazione (sia professionale che personale) dalla società maschilista in cui vivono. Facendo emergere questi personaggi come figure positive, pronte a sacrificarsi in nome di un bene più alto – emblematico il caso di Paul Drake, che arriva a dimettersi dal distretto di polizia in cui lavora perché stanco della corruzione e del malcostume – e puntando sulla differenza temporale che separa il mondo della storia da quello degli spettatori, in un’ottica che fa risaltare quanto oggigiorno si sia più progressisti, la serie tratta queste questioni “calde” del dibattito politico e culturale contemporaneo allineandosi, però, con il punto di vista liberale senza la benché minima contestazione.
In Perry Mason, quindi, nonostante la ripresa a piene mani degli stilemi del noir, manca quella carica critica potenzialmente sovversiva (Martignani 2018) che è sempre stata connaturata al genere. La serie, inoltre, non propone nemmeno un discorso in grado di decostruire e problematizzare (come il noir imporrebbe) la visione di mondo del contesto socioculturale che l’ha prodotta. Vi è da sperare, perciò, che la seconda stagione già in programma, lungi dal cadere nel baratro dell’insuccesso che colpisce le sophomore seasons di tanti prestige drama, continui il processo di noirizzazione non sono nella grammatica narrativa e visiva, ma anche negli aspetti più rivoluzionari propri del noir.
Riferimenti bibliografici
P. Corcuff, Romanzo poliziesco, filosofia e critica sociale, Mimesis, Milano 2017.
M. Locatelli, Psicologia di un’emozione. Thriller e noir nell’età dell’ansia, Vita & Pensiero, Milano 2017.
L. Martignani, Realismo sovversivo. Sociologia del genere noir, Ombre Corte, Verona 2018.
L. Steenberg, The Fall and Television Noir, in “Television & New Media”, vol. 18(1), 2017.
Perry Mason; Ideazione: Ron Fitzgerald e Rolin Jones; interpreti: Matthew Rhys, Juliet Rylance, Chris Chalk, Shea Whigham, Tatiana Maslany, John Lithgow; produzione: Dwight Street Book Club, Inflatable, Team Downey; origine: USA; anno: 2020.