Leggendo il Pericle di Shakespeare, T.S. Eliot diceva di respirare, da cima a fondo, un acre odore di alghe marine. Si può dire che assistendo al Teatro Politeama per il Napoli Teatro Festival Italia alla messinscena dello stesso testo ad opera di uno dei più rimarchevoli registi della scena contemporanea, Declan Donnellan, si ha l’impressione di alitare gli odori di alcool e di medicinali della stanza di un malato (così come, chi vi assistette, ricorda di aver inspirato zaffate di cloroformio nella geniale, iperreale, messinscena di Visconti de Les Parents terribles di Cocteau).
L’attrazione del regista per il romanzesco e il romance si era già tradotta nelle messinscene del dickensiano Grandi speranze (2005) e quindi negli shakespeariani Cymbeline (2007) e Racconto d’inverno (2015), e nella trasposizione cinematografica del maupassantiano Bel-Ami, con Uma Thurman e Christina Ricci, codiretto nel 2012 con Nick Ormerod, che del Pericle firma la scenografia, una stanza di degenza ospedaliera. Nel Novecento ciò che fa riemergere il tragico come il romanzesco sulla scena è un movimento parodico, in cui le colpe e i retaggi familiari (anche nel mito pregni della “malattia” e della “peripezia”, come in Edipo o nell’Orestea) affondano e riemergono nel mare inconscio di cui si impregna il quotidiano.
Il Pericle, principe di Tiro shakespeariano si apre con una scena in cui il nesso incestuoso edipico è evidente (come lo è nei Parents di Cocteau e nell’impianto greco tragico). L’“ombra nera dell’incesto” dà avvio alle peripezie romanzesche di Pericle (e quindi il tragico è come sballottato tra i marosi del romanzesco, nell’imprevedibilità delle avventure del mondo, infatti gli ultimi drammi di Shakespeare, che sono dei romance, hanno come modello i labirintici e misterici romanzi della tarda antichità).
Tutte le disavventure del principe di Tiro iniziano quando egli si reca ad Antiochia per conquistarvi la figlia del re Antioco rispondendo a un enigma che, se non indovinato, lo condannerebbe a morte. Pericle ne comprende invece l’orrendo segreto, l’incesto fra padre e figlia, e, inseguito da un assassino mandato da Antioco, fa ritorno a Tiro, ne affida il governo a Elicano, e fugge (come Giona) verso Tarso […] preda di una tremenda carestia (Boitani 2009, p. 59).
Da lì il destino gli fa attraversare tempeste, salvataggi, tornei di cavalieri, matrimoni, perdite di moglie e figlia, resurrezioni, agnizioni, giacché:
L’ondeggiare del caso riduce Pericle a vero e proprio Nessuno; un poveruomo sfiancato dalle stelle e dagli elementi […]; un essere umano che ha dimenticato quel che era […] semplicemente, come dichiara […] vinto dal bisogno, dalla fame e dal freddo, desidera soltanto di morire in pace (ivi, p. 62).
Così ben riassume il disegno di Pericle, Piero Boitani, riconducendo l’iter di Pericle a una sorta di calvario santificante ma anche al processo di prove iniziatiche cui l’uomo, come Nessuno (il senza-nome , lo Jedermann, l’ognuno, che nel tessuto processionale tardo antico e medioevale è alle origini del dissolvimento del “personaggio” nel romanzo moderno) viene sottoposto, anzi si abbandona, in un necessario processo di “guarigione” e “individuazione”. Processo che sarà ripreso dal “romanzo di formazione” moderno, in cui, destituita l’azione tragica, resta al personaggio la funzione di viandante e veggente nel “gran mondo” del reale, attraversato però da avventure-sventure che ne racchiudono un nucleo misterico, mescolano fantastico e reale, tragico e comico (come fecero notare Kerenyi e Altheim, il romanzo antico è una sorta di “mondanizzazione” dei Misteri, ciò che accade ad esempio tanto nell’Ulisse joyciano che in Petrolio di Pasolini).
Che cosa fa Donnelan di fronte all’intreccio pieno di imprevisti, di mutazioni, di pantomime, di precipizi (quale è quello di Marina, la figlia che come Santa Oliva oppure la Sofia gnostica di Simon Mago, finisce in un bordello a redimere i clienti-peccatori)? Sceglie una scena unica, fissa: la stanza di un ospedale con il letto di ferro del malato e le porte a vetri che danno sulle corsie. Pone sul letto di sofferenza il suo Pericle (affidandogli anche le metamorfosi in altri personaggi), ne traslitta le avventure in allucinazioni e deliri, fa sì che i personaggi (destituiti e ridotti a funzioni) lo visitino come i parenti fanno con un degente, e si affida alla straordinaria recitazione (in francese) di attori così intensi da trascinare via quella scena di quotidiana malattia nella fantasmagoria invisibile e inudibile delle danze stellari e delle apparizioni divine e misteriche (la “musica delle sfere” e il processo alchemico-palingenetico sui corpi dissolti e ricomposti è un nucleo essenziale, come lo è il deus ex machina della discesa dal cielo di Diana, in Shakespeare).
Ciò che all’inizio potrebbe sembrare sconcertante subisce, nella durata precipitosa dello spettacolo (scandita da musiche allusive, come la ricorrente chanson anni trenta J’attendrai di Rina Ketty), una miracolosa assimilazione al centro segreto del testo shakespeariano. Questo segreto, che è dello spettacolo e aderisce alla scena, è il tragitto, il viaggio di guarigione, traduzione sul piano romanzesco sia delle prove misteriche che della catarsi tragica. E ciò, memore di come realmente venivano rappresentati i drammi shakespeariani, viene agito con l’ausilio della cosiddetta “scenografia verbale” (e la metateatralità shakespeariana viene introdotta nel testo dal “racconto” evocativo di John Glower, mentre qui Donnellan lo elimina inscrivendo in una “meta-scena” già di per sé narrata, come il delirio febbricitante di cui è preda il protagonista).
Ciò che gli spettatori erano invitati a immaginare come una sorta di nesso leggibile-vedibile, una scena letta “tra le righe” dell’impianto fisso del Teatro del Mondo, da cui scaturisce il movimento stesso dell’immaginazione, viene inscritto nel ritmo e nell’immagine-parola del testo (come ha mostrato Masolino d’Amico in Scena e parola in Shakespeare), e qui è già predisposto dall’essere immessi nella malattia (della parola, dell’immagine, del corpo) e del suo necessario essere sottoposta a cura, prova, guarigione. Così ciò che si suggerisce viene rivolto
all’immaginazione perturbata del pubblico, con una serie di richiami alla propria realtà individuale e familiare che si mostra improvvisamente minacciosa ed estranea. Lo spettatore, suo malgrado, viene così spinto verso quello spazio del perturbante – tanto acutamente individuato da Freud – in cui dovrà porsi in maniera più consapevole e riflessiva rispetto al proprio inconscio, alla propria interiorità (De Filippis 2003, p. 78).
In tal modo diegesi, mimesi ed efficacia-inefficacia della parola-azione, del racconto e della rappresentazione, riemergono come dai flutti della tempesta, a ricostruire, rigenerare, riconoscere e trasformare tanto gli attori che gli spettatori, entrambi cooperanti nel voyant/voyeur che (come è per il cinema dal neorealismo al nuovo-reale del cinema contemporaneo) pone in movimento tra fantastico e realtà quotidiana la scena della nostra immaginazione.
Riferimenti bibliografici
P. Boitani, Il vangelo secondo Shakespeare, Il Mulino, Bologna 2009.
M. d’Amico, Scena e parola in Shakespeare, Einaudi, Torino 1974.
S. De Filippis, Teatro come sperimentazione. Shakespeare e la scrittura romanzesca, Bulzoni, Roma 2003.