Quali fattori determinano il successo di attori e personalità televisive in Italia? Le carriere di queste ultime sono determinate da forze esterne o unicamente dal talento e da una formazione specifica? Questi sono soltanto alcuni degli interrogativi che spesso ci poniamo dinnanzi ad uno scenario sempre più eterogeneo, sfaccettato, ibrido come quello televisivo. In questo saggio ci concentreremo in particolare su due momenti chiave che influenzano la carriera delle personalità che popolano il piccolo schermo: il percorso formativo e il casting.

«Famous for being famous»

Complici i molteplici mutamenti tecnologici e industriali, oggi è senza dubbio il medium televisivo – con le sue svariate “appendici” in streaming e i suoi nuovi formati – a proporre e ad esporre il più ampio e complesso panorama attoriale. Le cosiddette television personalities (Langer 1981), infatti, rappresentano una delle categorie più eterogenee dello scenario mediale, all’interno del quale convivono conduttori televisivi, attori legati a programmi di fiction più o meno longevi, nuove celebrity DIY create dai social network, pop star, fino ad arrivare ai concorrenti di talent show o reality. Proprio questi ultimi due modelli – se vogliamo, posti esattamente agli antipodi – restituiscono appieno caratteristiche ed essenza dello scenario televisivo contemporaneo, e ci offrono indicazioni importanti in merito agli interrogativi posti in apertura dell’articolo.

In entrambi i casi ci troviamo dinnanzi a quella che Mariapaola Pierini definisce una «verginità di presenza-assenza di tecnica», una verginità gestita in modalità del tutto differenti: da un lato il talent show rappresenta una sorta di mise en abyme del percorso formativo, propone la ricerca spasmodica dell’“X factor”, spinge sull’idea (talvolta persino sull’ideale) di una formazione specifica e, grazie anche al puntuale ausilio di intermediari culturali, punta alla creazione di professionisti con precise competenze; dall’altro lato, invece, il reality show figlio del Big Brother crea «figure più quotidiane e amate proprio per questo» (Ortoleva 2000), personalità che «jouent leur propre personnage et sont choisis justement pour ce que les producteurs perçoivent de leur personnalité» (Dyer 2007).

Le “wannabe celebrities” che affollano tutt’oggi i talent show del palinsesto, costantemente alle prese con l’idea di un perfezionamento del proprio talento e di un continuo potenziamento delle proprie abilità, rappresentano per certi versi un’anomalia all’interno del sistema televisivo. Fin dal principio, infatti, gli studiosi che si sono occupati di television personalities hanno sottolineato come le celebrità del piccolo schermo fossero semplicemente “just-as-they-are”, ossia non solo prive di qualsiasi capacità specifica o talento, ma anche disinteressate al perfezionamento o alla costruzione ex-novo di precise skills. Questa teoria è stata in seguito problematizzata, e soltanto a partire dai più recenti studi di James Bennett (2010) il “personality system” televisivo ha ritrovato una sua parziale complessità. Nella star creata dal talent, e qui risiede forse la sua anomalia, (soprav)vive quell’idea dyeriana secondo la quale «hard work and professionalism are necessary for stardom» (Dyer 2001). Si pensi, a titolo d’esempio, alla costruzione e all’interesse mediale nei confronti del difficile percorso di Elodie, finalista di Amici di Maria De Filippi, passata dal quartiere di Quartaccio a Roma al red carpet di Venezia 77.

Fin dalle origini del mezzo televisivo, con la comparsa e il grande successo delle prime personalità televisive, un grande interrogativo disorienta lo spettatore: “What do they do?”. Se per i concorrenti dei talent show pare certamente più semplice rispondere a questo interrogativo, così non è per i partecipanti sconosciuti di quei reality vicini al genere del Grande Fratello, parenti alla lontana, se vogliamo, delle prime celebrità televisive esemplarmente descritte e immortalate nel noto Diario minimo (1963) di Umberto Eco.

In contrast the narrative of predominant forms of television celebrity, most particularly that from reality TV, tends to elide questions of hard work or talent: instead, fame is merely attributed to them via the work of cultural intermediaries, such as publicists, managers and PR gurus (Bennett 2010, p. 35).

Se i concorrenti dei talent e dei reality show, almeno nella loro fase iniziale, ci offrono due spaccati e due versioni differenti sul tema del talento, è pur vero che oggi è possibile rintracciare in entrambi i casi diversi punti di contatto. Anche i talent show contemporanei, infatti, puntano notevolmente l’attenzione sulla costruzione e presentazione dell’immagine pubblica dei concorrenti, un’immagine che deve avere una solidità antecedente l’ipotetico lancio televisivo (ci sembra interessante osservare, ad esempio, come nel form di iscrizione al casting di Amici la selezione della categoria di appartenenza sia preceduta da uno spazio nel quale il candidato è tenuto a precisare i link al proprio canale YouTube, Instagram e Facebook). Il talento, tanto ricercato e inseguito dai molti show televisivi contemporanei, viene in sostanza affiancato – e talvolta preceduto – da una parallela abilità nella cosiddetta «multiplatform self-promotion» (Bennett 2010), ed è forse proprio in questa pratica che va rintracciata una nuova e trasversale espressione del talento.

Il casting televisivo

A influenzare le carriere e le performances degli attori non c’è solo la loro abilità di gestire immagine, self-branding e self-promotion. Il casting, per esempio, pur essendo stato a lungo marginalizzato nella ricerca accademica, è determinante nello sviluppo della carriera di attori e attrici televisivi. Gli studiosi della tradizione dei production studies (John Caldwell, Vicki Mayer) o legati alla tradizione di cultural and media work (Mark Deuze, Marks Banks), hanno esplorato da vicino le dinamiche di potere, di relazione e di autorappresentazione collettiva che influenzano le carriere di chi lavora nelle industrie culturali. Alcuni studi sul casting televisivo che hanno ispirato il progetto F-Actor ci arrivano dagli Stati Uniti. Kristen J. Warner, per esempio, esplora l’impatto della crescente precarietà del lavoro su attori e attrici appartenenti a minoranze etniche. La studiosa si concentra sulle «discoursive maneuvers» che definiscono e legittimano particolari rappresentazioni e strutturazioni della realtà lavorativa. Warner conclude:

Various creative laborers at various levels of access navigate precarity – from the anonymous (white) gatekeepers who stress that precarity is not a diversity issue but only an issue for those who lack the necessary skills [c,vo nostro]; to the casting directors who find themselves stuck in a precarious limbo with insufficient power to break the status quo despite unparalleled access to diverse pools of talent; to actors of color whose precarious existence means they must strategically plan to circumvent the system even if those strategies benefit individuals at the expense of collective forms of resistance (Warner 2011, p. 183).

I production studies hanno influenzato anche lavori sul casting televisivo italiano come quelli di Luca Barra (2015) sulle serie Gomorra (2014-in corso) e Romanzo criminale (2008-2010), o di Dana Renga (2020) sulla serie L’amica geniale (2018-in corso), adattamento dei libri di Elena Ferrante. Luca Barra ha sottolineato l’importanza del casting nello specifico ambito della Tv a pagamento contraddistinto da una peculiare forma di “divismo collettivo”. Ciò che affascina il pubblico è un gruppo di attori poco conosciuti ma radicati al territorio e con tratti fortemente rappresentativi della realtà sociale che la fiction racconta. Dana Renga, invece, ha esaminato le pratiche di casting de L’amica geniale intervistando alcune delle figure creative coinvolte nel progetto di adattamento. Questa serie è stata ideata e realizzata come un prodotto transnazionale, destinato cioè a un pubblico non esclusivamente italiano. La studiosa sostiene che il concetto di “autenticità” che guida le scelte del casting sia costruito retoricamente e non risponda a necessità artistiche, come invece paventato dagli addetti ai lavori. Tali costruzioni retoriche («discorsive maneuvers») sarebbero invece legate alle esigenze del mercato internazionale in modo che «an “authentic” Italy is exported to transnational audiences» (Renga 2020, p. 86).

In ultimo, vorremmo sottolineare che per ricerche di questo tipo è importante ricorrere a tecniche di indagine empirica qualitativa. Esse infatti consentono in modo efficace di carpire le esperienze e le pratiche degli attori e delle attrici. Proprio nel contesto televisivo, così variegato e ricco di nuove figure lavorative, le tecniche di ricerca empirica aiutano a comprendere la rilevanza (o la marginalità) di contesti e ambiti specifici, consentendo l’interazione approfondita con i partecipanti alla ricerca. In un importante contributo sul concetto marxiano di alienazione proprio nell’abito del casting televisivo, Vicki Mayer sottolinea l’indispensabilità dei metodi di ricerca empirica per far luce sugli spazi interstiziali dei processi produttivi: «Television programs, the result of hundreds of micro-processes from script-writing to distribution, rely on thousands of collaborative efforts, but without some form of fieldwork it is hard to know how these collaborations manifest» (Mayer 2009, p. 23).

Per comprendere il lavoro degli attori e delle attrici e del loro reale contributo creativo e artistico è sicuramente importante guardare al grado di incisività dei processi industriali a livello macro. Ma è altrettanto importante comprendere i contesti particolari, le soggettività e i processi di autorappresentazione in cui esse si esprimono. È quindi fondamentale far luce, per esempio, sulle dinamiche di passaggio dalle scuole di formazione al mondo del lavoro, sulla gestione e la selezione degli attori, e sulla cultura delle comunità produttive.

Riferimenti bibliografici
L. Barra, Star a ripetizione. Modelli di celebrità nella fiction italiana contemporanea, in Nel paese degli antidivi, a cura di G. Carluccio e A. Minuz, in “Bianco e Nero”, n. 581, gennaio-aprile 2015.
J. Bennett, Television Personalities. Stardom and the Small Screen, Routledge, London 2011.
R. Dyer, Federico Fellini et l’art du casting, in V. Amiel, J. Nacache, G. Sellier, C. Viviani, a cura di, L’acteur de cinéma: approches plurielles, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2007.
J. Langer, Television’s “Personality System”, in “Media, Culture and Society”, n. 4, 1981.
V. Mayer, Bringing the Social Back In: Studies of Production Cultures and Social Theory, in V. Mayer, M. Banks, J.T. Caldwell, a cura di, Production Studies: Cultural Studies of Media Industries, Routledge, New York 2009.
K.J. Warner, Strategies for Success? Navigating Hollywood’s “Postracial” Labor Practices, in M. Curtain, K. Sanson, a cura di, Precarious Creativity, University of California Press, Berkeley 2016.
P. Ortoleva, Divismo televisivo, in Enciclopedia italiana. Aggiornamenti 2000, Treccani, Roma 2000.
M. Pierini, La recitazione, in D. Bruni, A. Floris, F. Pitassio, a cura di, A scuola di cinema. La formazione alle professioni dell’audiovisivo in Italia, Forum, Udine 2013.
D. Renga, Casting My Brilliant Friend’s Authentic Stardom, in “Series-International Journal of TV Serial Narratives”, n. 6.1, 2020.

*Giulia Muggeo è autrice della prima sezione dell’articolo. Luca Antoniazzi ha invece redatto la seconda.

Share