Teatro e filosofia, dal momento della loro nascita congiunta in Grecia, hanno attraversato, come una vecchia coppia il cui amore e i cui litigi animano ancora la vita, duemilacinquecento anni di storia. Oggi è possibile trovare delle traduzioni e delle edizioni recenti di Platone o di Aristotele in tutti i paesi del mondo, e ininterrottamente si mettono in scena Sofocle e Euripide. In pratica, non c’è che la matematica che possa competere con un simile arco temporale: si insegnano infatti ai ragazzi i rudimenti della geometria euclidea o dell’aritmetica pitagorica come se la loro antica evidenza fosse inaccessibile all’usura.

Forse la filosofia ha come eterna missione quella di conciliare, in condizioni continuamente mutevoli, quello che ci dice il teatro, con la sua amabile sensualità, e quello che ci insegna, per riprendere un’espressione di Lautréamont, la “severa matematica”.

In ogni caso, è sicuramente vero che esattamente come le tragedie greche non sono affatto invecchiate – e lo dimostrano le nuove e potenti messe in scena che oggi le fanno resuscitare per il pubblico contemporaneo – la logica matematica greca, così sorprendentemente fulminante nella sua semplicità che stabilisce l’esistenza di un’infinità di numeri primi, viene riproposta tale e quale ogni volta che si instrada qualcuno all’aritmetica dimostrativa. E non aveva torto Whitehead nel dire che tutta la storia della filosofia può essere ricondotta alle note a piè di pagina dei dialoghi di Platone.

È del tutto stupefacente che questi tre prodotti dell’invenzione della mente umana di cui noialtri – animali per il resto così indifesi, egoisti, violenti, interessati, il cui gracile aspetto non regge il confronto con quello di una tigre siberiana o di un grande pappagallo blu – siamo senza dubbio capaci, siano stati nel corso della loro storia vilipesi, censurati o disprezzati tanto dalla volubilità dell’opinione quanto dalle istituzioni più fortemente radicate. Sì, oggi come ieri, il teatro, la matematica e la filosofia hanno come destino comune quello di esser duramente criticati e trattati con diffidenza.

È noto che le grandi religioni hanno a lungo proibito il teatro e molto spesso lo guardano ancora con sospetto. Quasi ovunque infatti si è considerato un attore un dannato e un’attrice una donna di facili costumi. Si è sostenuto inoltre che l’imitazione scenica degli dèi fosse una blasfemia, e quella delle passioni umane un incoraggiamento ad abbandonarsi al nichilismo dei vizi o a sprofondare nella disperazione di un mondo violento e dominato dalla fatalità. Gli stessi moderni hanno proclamato che ogni arte autentica dovesse farla finita con la rappresentazione, tendendosi così più vicina al dinamismo vitale di cui i corpi sono portatori, abolendo la distanza fatale tra attori e pubblico, tra scena e sala, al fine di dare origine a un collettivo festoso in cui tutti avessero indistintamente il loro ruolo attivo. L’idea attuale è quella di dare vita a un “teatro” senza alcuna teatralità, un teatro che abolisce il teatro. Ecco allora che ci troviamo di fronte, forse, a una religione contemporanea: obliata l’antica legenda dell’eternità dell’anima, essa riorganizzerebbe il desiderio smarrito di confondersi con il nudo reale del corpo, che non è rappresentato da niente e che niente rappresenta.

Neppure la matematica ha più avuto un successo unanime. Ancora oggi, anche se un qualsiasi oggetto tecnico (un telefono, un’automobile, una lampadina elettrica, un computer, un drone…) è un puro concentrato di sapienti calcoli matematici, dichiarare che “non ci si intende di matematica” è quasi un gesto di cortesia sociale. Si tende infatti volentieri a sostenere che tali astrazioni siano “inutili” e che, ad ogni modo, l’astrazione in generale non abbia posto nella “vita ordinaria”. Ancora meno nella Vita maiuscola a cui si appellano Nietzsche e Bergson. Per il primo, il culto che molti filosofi classici hanno avuto della matematica non è che il mortificante destino della “malattia del platonismo” (“maladie Platon“) da cui è doveroso guarire. Per l’altro, la matematica non è che la parte astratta dell’azione umana sulla natura e non intrattiene nessun rapporto con la “morale aperta” a cui ci esorta l’esempio supremo della santità. Ma è vero che già Aristotele accusava Platone di feticismo matematizzante e affermava che la matematica fosse più prossima all’eleganza estetica di un gioco d’ingegno che a qualsiasi verità.

La filosofia infine, particolarmente ai giorni nostri, sembra aver perso la sua aura, e in tre modi distinti e articolati.

Dal punto di vista dell’opinione, visto che si è arrivati a chiamare “filosofo” ogni cronista, ogni giornalista, allorché si riveli capace di discutere in pubblico di una qualsivoglia questione attuale. È la decadenza per inflazione.

Dal lato delle istituzioni, poiché, confinata nella ristrettezza di una disciplina accademica tra le altre, la filosofia non ha potuto far altro che soffocare o oscillare tra una retorica di enunciati corretti e uno studio sterile della propria storia.

Dall’interno di se stessa infine, perché da Nietzsche, se non addirittura da Kant, un virus ostile è stato iniettato in seno alla filosofia, corrodendola e spingendola verso una coscienza infelice della propria esistenza, oltre che al dubbio sistematico su ciò di cui essa stessa sarebbe capace. Grandi figure, come Wittgenstein o Lacan (ma già Pascal, Rousseau o Kierkegaard), hanno fatto del resto professione pubblica di antifilosofia, non esitando a dichiarare che gli stessi enunciati della metafisica siano dei puri non-senso e che la filosofia non serva ad altro che a proteggersi dal reale, sostenendo addirittura – si sa che Nietzsche ha sempre portato all’estremo le sue deduzioni – che il filosofo è “il criminale dei criminali”.

Allora, non è forse naturale che chiunque intenda mantenere – restaurare? – tutti i diritti che si attribuivano i grandi metafisici del passato, chiunque non ammetta le restrizioni, gli impedimenti e le cavillose “condizioni di possibilità” a cui Kant ha inchiodato il desiderio di filosofia – per infine consegnarci alla morale e alla religione –, si rivolga in qualche modo, e in maniera inscindibile, tanto alla matematica quanto al teatro?

Dichiariamo dunque qui l’alleanza non pacifica dei grandi perseguitati contemporanei da parte di ciò che, per quanto riguarda l’azione intellettuale, tenta di dettare legge. Contro il teatro senza teatro, contro l’apologia del corpo e della non separazione, prepariamo il futuro del teatro fedele al teatro. Contro la voluta ignoranza di tutto ciò che riguarda in modo astratto l’essere puro, contro l’essere senza qualità, l’apologia ingannevole del “concreto”, studiamo la matematica pura. Contro il parlamentarismo capitalista che, sotto il nome improprio di “democrazia”, vuole assicurare in modo violento la sua egemonia planetaria, reinventiamo la politica comunista. Infine, rifondiamo ancora una volta, come lo si è fatto da Platone a Sartre, il solo luogo che sia davvero aperto all’incontro degli altri tre: la metafisica, la vera filosofia, e il modo in cui questa, autonomamente, è capace di cambiare la propria eternità.

Se non parlo qui dell’amore, che è – dopo il teatro, la matematica e la politica – il quarto pensiero vivente che oggi occorre difendere contro i suoi nemici moderni, è perché ho già scritto Éloge de l’amour. Ho anche scritto e pubblicato un Éloge du théâtre, seguito da un Éloge des mathématiques. La reinvenzione della politica comunista è, come ciascuno sa, una specialità di poco successo, che io pratico con una certa assiduità, e che finirà per produrre un Éloge de la politique.

Il grande matematico francese Jean Dieudonné dava la seguente risposta a quelli che dicevano che “la matematica non serve a niente”: la matematica esiste per onorare lo spirito umano. Ebbene, il presente libro concepito dagli amici italiani prova che il teatro anch’esso esiste “per onorare lo spirito umano”. Esso è, nella sua essenza, quel “teatro delle Idee” di cui parlava Antoine Vitez. […]

 * Traduzione dal francese di Patrizia Fantozzi.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Teorie dell’evento. Alain Badiou e il pensiero dello spettacolo, a cura di F. Ceraolo, Mimesis, Milano 2017.

*L’immagine presente nell’articolo e in anteprima è un dettaglio della copertina del libro.

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