Il testo di Gigi Roggero, Per la critica della libertà. Frammenti di pensiero forte, pubblicato nella collana Input di DeriveApprodi, è un pamphlet politico dai toni virulenti e a tratti comprensibilmente accigliati. Il punto di vista dal quale si esercita la critica, annunciata dal titolo, della libertà liberale spiega anche il sottotitolo: «La parte è il punto di vista da cui si vede il tutto, e si può agire contro di esso. Il pensiero di parte è pensiero forte, il pensiero pluralista è pensiero molle» (Roggero 2023, p. 26). La parte assunta dall’autore è quella di chi intende «andare, ogni volta dal principio, in guerra con il mondo» (ivi, p. 60), ma è anche, implicitamente, quella di chi riflette sul senso di un’altra libertà, quella che dà il titolo a un libro di Galvano Della Volpe, scritto nel 1946: La libertà comunista. Alla rilettura di questo libro è dedicato anche il testo di Mario Tronti (scritto nel 2000) che chiude il volumetto.
Per andare alla radice del lavoro di Roggero, si dirà che una critica della libertà non può che trovare il proprio fondamento in una più ampia discussione della nozione su cui si erge l’edificio dell’economia politica e, più in generale, quello della politica moderna: la nozione di individuo. E questo non solo per le ragioni che spingono Marx, nella prima pagina dei Grundrisse, a deridere le robinsonate del XVIII secolo, cioè a mettere in questione che l’analisi delle società umane possa iniziare con la finzione di un «singolo e isolato cacciatore e pescatore», come accade in Smith e Ricardo, ma anche perché ogni libertà personale, nella società capitalistica, non è altro che la facoltà, posseduta solo da alcuni, di godere di una posizione privilegiata, offerta dal caso. Come spiega Della Volpe, «questo diritto di poter […] fruire del caso con sicurezza è stato chiamato finora libertà personale» (ivi, p. 88).
La casualità, naturalmente, è dovuta al fatto che nessuno si sceglie la funzione da svolgere nella divisione sociale del lavoro. Ma più in generale, il punto è che l’idea stessa di un individuo dotato di libertà personale è divenuta desueta dal momento in cui la socializzazione della produzione implica, di necessità, l’apparire di un «individuo sociale», cioè di un individuo che non può garantire la propria sussistenza senza il concorso degli altri. È a questo che corrisponde l’esigenza di una libertà comunista.
Su tale base, Roggero affila le sue armi dialettiche e militanti, spiegando non solo che «nel capitalismo il problema principale è la libertà, non la sua mancanza» (Roggero 2023, p. 17), ma soprattutto che il fantasma della libertà colpisce anche le rivendicazioni apparentemente più radicali e, insieme, più legittime, come quelle che dicono “sul mio corpo decido io”. Il commento di Roggero è più che pertinente, quando si domanda:
Ma il corpo è mai, davvero, mio? Nella società del capitale, il corpo è nei fatti innanzitutto suo. Chiunque ne ha una riprova quando al mattino si deve alzare per andare col suo corpo al lavoro, perfino quando è in smart working. E se non lo fa, è perché qualcuno lo fa per lui o per lei, oppure perché sfrutta altri corpi (ivi, p. 19).
È un punto centrale e delicato, questo, perché invita a pensare che il dominio del capitale sia così completo da inglobare, per esempio, anche coloro che si trovassero nella situazione di rifiutare il lavoro.
Si comprende, certo, che Roggero si impegni a far piazza pulita di tutte le residue illusioni che albergano nei discorsi e nelle idee della “sinistra”, ma il suo gusto per la radicalità, la sua propensione a «andare sino in fondo alla tragicità del mondo» (ivi, p. 14), rischia seriamente di cancellare in partenza ogni possibile appiglio per un pensiero critico e per una vita militante. Intendo dire che ci dovrà pur essere, in questo mondo, qualcosa a cui si tiene un pensiero forte, che non sia semplicemente la volontà, fondata inevitabilmente solo in negativo, di andare all’assalto del nemico. Detto altrimenti, la nostra parte dovrà pure caratterizzarsi per qualche suo tratto effettivo, se non intende essere semplicemente la parte della vittima (che come tale è destinata all’impotenza). La formula di Roggero, «solo nella lotta contro la nostra riduzione a individui troviamo la possibilità di non essere soli» (ivi, p. 38), è senza dubbio efficace e giusta, ma non può non celare il fatto che una tale “lotta contro” può esistere solo se si fonda su una “lotta per”.
Non si tratta, com’è ovvio, di una critica che riguardi solo l’atteggiamento di questo libro, perché anzi, la mancanza anche solo dell’immagine di una forma di vita comune, autonoma rispetto alle pratiche della formazione sociale capitalistica, sembra il più arduo problema politico del nostro tempo. Il punto è che, in mancanza di questa, tanto ogni istanza di liberazione quanto ogni critica delle sue illusioni restano esigenze di carattere meramente morale e dunque, che lo si voglia o meno, frutto di un pensiero debole.
La forma di vita comune che ha nutrito il marxismo coincideva, fondamentalmente, con la solidarietà di classe, cioè con la comunanza nel lavoro di fabbrica. E l’immagine di una società senza classi poteva avere i contorni tecnici della gestione collettiva della produzione e di un lavoro non più alienato. Ma questo terreno non è più il nostro. Il lavoro non si presenta più come il germe attuale di un mondo comune a venire. E non è detto che questo sia un male venuto solo per nuocere. Ma certo il compito attuale, per chi non si accontenta né dei miseri godimenti privati né delle pubbliche accuse, è di dare consistenza collettiva, ai margini o negli interstizi della società che ci attraversa e ci circonda, a modi di essere, di abitare, di pensare, di agire, di produrre che prospettino una vita e un mondo comuni.
Dire che il lavoro non presenta più un’immagine del mondo comune a venire non significa solo che il lavoro non esercita più né una funzione morale (la famigerata etica del lavoro), né una funzione utopica o «scientifica» (alla maniera di Fourier o del marxismo), ma significa soprattutto che il lavoro tende a diventare residuale tanto nella vita di ognuno (dove finisce spesso per essere non retribuito), quanto nella produzione del valore (che avviene per lo più attraverso circuiti finanziari autonomi). E in questa situazione diventa difficile continuare a pensare che sia il lavoro a testimoniare della socializzazione umana. Sempre più chiaramente, il lavoro non è testimone che della sottomissione a cui è costretto chi lo esercita.
Il lavoro, ormai, viene percepito come qualcosa che esiste solo in funzione della concorrenza tra i capitali internazionali, non più certo in funzione della produzione né, di conseguenza, della cooperazione sociale. L’ultimo suo baluardo è l’innovazione, la quale però ha sempre meno bisogno di lavoro, in senso stretto, e sempre più di invenzione e conoscenza (che com’è noto sono il frutto del non lavoro, dello studio, della divagazione). Ci sono insomma molti segnali che rendono ragionevole e anzi necessaria la rivolta contro il lavoro contemporaneo, ma al contempo, se non si vuole che questa rivolta, per quanto fragorosamente annunciata, resti sterile, c’è la necessità di ricostruire quel senso di una vita comune o di una «comunità reale» che il lavoro non è più in grado di prefigurare. È forse questo il compito principale per chi vuole tornare a pensare la libertà comunista.
Gigi Roggero, Per la critica della libertà. Frammenti di pensiero forte, Derive Approdi, Roma 2023.