Quarant’anni fa, alla Mostra del Cinema di Venezia del 1982, veniva proiettato per la prima volta Il pianeta azzurro. L’impatto del film sugli spettatori fu dirompente: attraverso un linguaggio sperimentale e innovativo, Piavoli realizzò un’opera unica e affascinante che riscosse un successo unanime. A Venezia il regista vinse il premio per l’autore esordiente e il film ottenne numerosi elogi, tra i quali spiccò quello di Tullio Kezich che provocatoriamente auspicò il bisogno di «farlo vedere per legge a tutti gli italiani» (Kezich 1982). Il pianeta azzurro ricevette consensi e premi anche fuori dal Festival, ma, inspiegabilmente, subì una scarsa e travagliata distribuzione che non gli permise di farsi conoscere a un vasto pubblico. Dovette impegnarsi in prima persona Silvano Agosti, il quale, data la difficoltà a far accedere il film nelle sale italiane, decise di rilevare lui stesso un cinema – il celebre Azzurro Scipioni – per consentirne la visione, contribuendo – forse inconsapevolmente – non solo alla sua distribuzione, ma anche a investire di un’aura quasi sacrale l’opera, che riuscì ad attirare uno specifico pubblico e dette inizio al culto del regista.

Con Il pianeta azzurro, Piavoli presentò non solo la propria visione poetica del mondo, ma anche la propria idea filmica, sviluppata a partire dai suoi primi cortometraggi degli anni sessanta e ostinatamente perseguita nel prosieguo della sua carriera. Perché Piavoli, come è noto, ha una visione personalissima dell’arte cinematografica che, attraverso le proprie opere, indaga in modo rigoroso e sovversivo per saggiarne le potenzialità e rompere ogni forma di genere. Si è soliti infatti utilizzare l’apposito termine di “cinema sinfonico” per indicare la sua produzione e questo suo primo lungometraggio, che sorprese e meravigliò l’ignaro pubblico veneziano, ne è divenuto l’emblema. Ma l’importanza de Il pianeta azzurro non è unicamente legata al percorso artistico del regista, perché, nonostante la repulsione della (e dalla) “macchina cinema”, è stata un’opera determinante nello sviluppo stilistico del film documentario.

Privo di qualsiasi tipo di stilema narrativo tradizionale, Il pianeta azzurro rappresenta lo scorrere della vita affidandosi esclusivamente al potere astrattivo ed evocativo delle immagini e dei suoni, i quali, caricati di una pari funzione espressiva, si completano vicendevolmente dando vita a un unico complesso tessuto polifonico. Non c’è narrazione, ma più propriamente composizione: l’aggettivo sinfonico non è riferito alla radicalità della colonna sonora e alla sua inusuale preminenza, né tantomeno è indice di una presenza imponente della musica – sulla scia dei film di Godfrey Reggio, per fare un esempio concreto – che, invece, qui non è mai l’elemento predominante. Sinfonico, bensì, è riferito alla forma che l’opera assume: Piavoli sperimenta vie inusuali di montaggio, legando i suoni e le immagini in rapporti «consonanti, dissonanti o né l’uno né l’altro, alla Debussy» (Chion 2017, p. 48), all’interno di una struttura compositiva influenzata dal linguaggio musicale. Il regista considera infatti cinema e musica arti affini, perché entrambe si svolgono nel tempo e, perciò «con il montaggio si fa un’operazione molto simile alla composizione musicale» (Piavoli 1997, p. 22).

In altre parole, quelli di Piavoli sono film che vivono nella musica, vi sono letteralmente immersi e perciò si fanno anche musica: non solo la colonna sonora, ma ogni elemento compositivo risente delle influenze provenienti da questa arte. Le narrazioni che il regista porta sul grande schermo sembrano così semplicemente accadere, prendendo vita dalle immagini che, come le note di uno spartito, non significano altro da sé, esistendo in quanto tali nella loro individualità, e, allo stesso tempo, nello sviluppo dell’opera sono in grado di assumere un loro significato, grazie proprio alla struttura compositiva della quale fanno parte.

Ne Il pianeta azzurro, il regista condensa all’interno dell’opera, sovrapponendole l’una con l’altra, la rappresentazione di un giorno, delle stagioni e delle ere geologiche, cioè della nascita e dell’evoluzione della vita sulla Terra. Ogni singolo fenomeno mostrato riesce così a trascendere se stesso e a caricarsi di valori più ampi, senza che Piavoli ne sveli mai il significato preciso. Vita e morte, amori e conflitti, gioie e dolori, felicità e tristezza, si susseguono in varie forme durante il racconto filmico, senza che le cause e i motivi siano noti allo spettatore. È inutile, infatti, cercare un senso preciso in questo film che, mettendo in forma la vita in tutta la sua ambiguità e la sua complessità, fa porre domande e non dà risposte, con il regista che chiede allo spettatore di partecipare (più che di assistere) all’esperienza audiovisiva. L’immagine filmica si apre così a una molteplicità di letture proprio come fa la realtà: essa non è più il luogo di una testimonianza, ma diviene vera pulsazione di vita, perché in grado non solo di far vedere e ascoltare, bensì – con Ejzenštejn – di far sentire.

Piavoli lavora con gli elementi puri e tangibili della realtà, ma, allo stesso tempo, attraverso la fase di montaggio, li trasfigura dando loro nuova forma, al fine di liberarsi dalle semplificazioni realistiche e dalla falsa oggettività della descrizione e aprirsi, invece, all’intangibile. Etica e rispetto della realtà da un lato, sperimentazione linguistica e ricerca estetica dall’altro, sono quindi le strade che il regista percorre: Piavoli realizza così un film non incasellabile in alcun genere, riuscendo a cogliere la purezza dell’essenza cinematografica, ma che, proprio per la materia prima di cui si è servito, ha avuto le maggiori ripercussioni nel documentario.

All’interno di quel gran calderone che è stato il cinema italiano degli anni ottanta, Il pianeta azzurro emerge infatti non solo per la novità stilistica, ma anche perché, ancor prima dell’arrivo del digitale, è stato uno di quei film che ha contribuito a riformulare (o almeno a ripensare) le idee formali alla base del documentario, aprendo la strada al multiforme cinema del reale contemporaneo. Un cinema, questo, che si caratterizza come spazio aperto di incontro, di relazione, di dialogo tra il regista e l’oggetto, tra lo spettatore e il film, fondandosi sul rifiuto della rappresentazione precostruita, immediata, didattica del presente, al fine di evitare di intrappolare l’opera in unico punto di vista.

Oggi, come è ormai evidente, il cinema del reale si sta distinguendo come uno dei più ricchi spazi di sperimentazione filmica, perché in grado di travalicare ogni forma di genere, realizzando opere originali, ibride, indefinite che interrogano e si interrogano. È questa infatti una cinematografia viva, capace di dire anche ciò che non dice, di parlare oltre il suo tempo e perciò in continuo dialogo con il presente. Ecco, quindi, che a quarant’anni di distanza dalla sua uscita, un’opera come Il pianeta azzurro, che già presentava, per certi versi, alcune delle caratteristiche peculiari del cinema del reale contemporaneo, non ha perso né la sua forza né la sua attualità. Ricordare questo film e, più in generale, ricordare l’operato di Piavoli è quindi quanto mai utile, perché, come già Volpi prediceva nel 1991, se c’è una cosa che non può essere messa in discussione sul regista «è la necessità profonda del suo lavoro» (Volpi 1991).

Riferimenti bibliografici
M. Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio, Venezia 2008.
M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 2017.
A. Faccioli, a cura di, Lo sguardo in ascolto. Il cinema di Franco Piavoli, Kaplan, Roma-Torino 2003.
T. Kezich, La vita, che meraviglia, in “La Repubblica”, 29 agosto 1982.
F. Piavoli, Cinema e polifonia, in C. Lunardi, a cura di, Franco Piavoli. Immagine e suono, Grafo, Brescia 1997.
G. Volpi, Introduzione in D. Segre e G. Volpi, a cura di, Immediati dintorni. Il cinema e le fotografie di Franco Piavoli, La Stampa, Torino 1991.

Il pianeta azzurro. Regia, soggetto, sceneggiatura e montaggio: Franco Piavoli; origine: Italia; anno: 1982; durata: 88′.

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