È impossibile ripercorrere anche solo in modo sommario tutte le tappe della carriera artistica di Franca Valeri, tutti i generi artistici e i media in cui si è espressa la sua creatività, tutte le figure che ha inventato e impersonato. Ha spaziato  dalla commedia al dramma, dal racconto all’autobiografia, dal teatro al cinema, dalla televisione alla canzone, dal cabaret all’opera lirica, senza nessuna gerarchia, con una tendenza a creare sinergie fra i diversi linguaggi artistici che oggi si chiama intermedialità. Potremmo definire questa incessante ricerca espressiva, che si è concretizzata in più di settant’anni di presenza sulla scena, eclettismo: un termine che, depurato dalle connotazioni negative di dispersività, implica un rifiuto di modelli assoluti (mi piace ricordare l’Elogio dell’eclettismo scritto da un maestro della comparatistica come Remo Ceserani).

In tutte le sue esperienze Franca Valeri ha comunque conservato una coerenza invidiabile: è rimasta essenzialmente un’attrice comica, anzi tragicomica, che sa essere anche autrice; innanzitutto nel senso più classico del termine, in quanto ha pubblicato racconti, commedie (ora raccolte in un unico grosso volume per festeggiare i suoi 100 anni dall’editore La Tartaruga), prose autobiografiche, come Bugiarda no, reticente, apparsa presso Einaudi, libera affabulazione che ripercorre in modo rapsodico la propria vita dalle leggi razziali subite sotto il fascismo fino al momento presente.

Sappiamo inoltre che ha scritto spesso le parti di sceneggiatura che riguardavano i suoi personaggi, nella maggior parte dei casi senza essere accreditata. Ma Franca Valeri è autrice anche in un altro senso, meno immediato, come lo sono tutte le grandi attrici che si sporcano sulla polvere della scena. Il mondo dello spettacolo ha sempre decostruito ogni nozione forte di autore; film e spettacoli sono opere collettive che scaturiscono da svariati saperi artigianali, fra i quali quello degli attori è particolarmente prezioso. In tutte le apparizioni di Franca Valeri si sente l’impronta di un’attrice-autrice che ha una sua strategia espressiva, e che torna su alcuni temi prediletti come lo snobismo, la modernizzazione, il rapporto madre-figlio, l’omosessualità e la decostruzione dell’identità maschile.

Vorrei soffermarmi su un modello di personaggio che ricorre in modo costante in film diversi fra di loro (una sorta di firma d’autrice): una donna che vive in un mondo alternativo, frutto del suo bovarismo e del suo snobismo. La dissonanza fra questo mondo e la realtà bruta provoca effetti esilaranti e allo stesso tempo malinconici. Facciamo qualche esempio: in Piccola posta (Steno, 1955) è una piccola borghese romana, che si finge una baronessa polacca, cura una rubrica sentimentale, e recita in modo artificioso anche nella vita reale (lo straniamento di questa commedia surreale include anche la parodia del film Sabrina); in Un eroe dei nostri tempi (1955) di Mario Monicelli è una donna dominatrice, che ha come vittima Alberto Sordi: si finge vedova di un ambasciatore a Bucarest, ma nello smascheramento finale si scoprirà che si trattava solo del cameriere di un’ambasciata; ne Il bigamo (1956) di Luciano Emmer è una “mitomane isteroide” (così la definisce l’avvocato virtuosisticamente interpretato da Vittorio De Sica) che ha sposato un uomo mediocre, poi sparito, e sogna di ottenere un marito giovane e bello (Mastroianni) grazie a un’omonimia.

Come scrive Adriano Emi, la mitomane è un format polivalente, che viene dagli sketch televisivi (L’amore è poetica attesa), e ritorna negli anni sessanta, e in particolare nel suo capolavoro, Parigi o cara (Caprioli, 1962), di cui co-firma la sceneggiatura. Nella storia di Delia, prostituta nata nel centro storico di Roma e trasferitasi nelle borgate, che sogna la grande vita di Parigi, culmina il bovarismo che ossessiona Franca Valeri. C’è una magnifica scena in particolare che condensa il suo universo creativo: la protagonista ha conosciuto due viveurs che l’hanno portata a una festa, attratti dalla bizzarria dei suoi abiti; tornata a casa subisce la riprovazione moralistica dell’ambiente del fratello presso cui vive, e decide perciò di telefonare ai due giovani, ma si accorge di aver perso i numeri, che aveva scritto su una scatola di fiammiferi poi passata a loro per le sigarette.

Sola nella cabina, di fronte a un telefono (il mezzo tanto amato dalle maschere di Franca Valeri) che non può utilizzare, Delia ripete sei volte la stessa frase “Sempre a fa i servizi a tutti”. È una scena struggente che segna il fallimento di tutti i sogni narcisistici: subito dopo riceverà la proposta di matrimonio del pizzaiolo impersonato da Vittorio Caprioli, e lascerà Parigi riuscendo finalmente a intravedere dalla macchina la tanto agognata Place de la Concorde. Riuscire a mescolare le lacrime con il riso è forse il risultato più affascinante a cui può giungere un’attrice: questa potenza del tragicomico l’avevano colta già gli antichi, che dopo le trilogie tragiche mettevano in scena i drammi satireschi; l’aveva colta più di tutti Shakespeare, lo hanno teorizzato i romantici, lo hanno estremizzato Kafka e Beckett, e lo possiamo sperimentare anche oggi in nuovi generi come il dramedy.

La versatilità di Franca Valeri è notoriamente anche versatilità linguistica. Introducendo La cognizione del dolore di Gadda, Gianfranco Contini individua una linea dell’espressività dialettale in cui inserisce Franca Valeri assieme a Eduardo De Filippo; dopo di allora questa linea ha prodotto le esperienze drammaturgiche più interessanti della scena italiana: Annibale Ruccello, Enzo Moscato, Spiro Scimone, Emma Dante. Attraverso le sue maschere grottesche che parlano in dialetto, Franca Valeri analizza con lucidità le trasformazioni della società italiana. I suoi personaggi più famosi, la signorina Snob e la Sora Cecioni, provengono dai due centri della vita italiana, Milano e Roma, rispettivamente città natale e città di adozione: rivedere oggi quegli sketch televisivi significa capire molto della modernizzazione selvaggia che ha vissuto l’Italia negli anni sessanta; molto più che leggendo un saggio di sociologia.

Franca Valeri ha dunque raccontato come poche l’Italia, ma nello stesso tempo ha sempre coltivato una sua dimensione cosmopolita. Dalla passione giovanile per Proust agli esordi del Teatro dei Gobbi a Parigi, dalle varie consonanze con il teatro dell’assurdo alle messinscene più recenti delle Serve di Jean Genet e di Possesso di Abraham Yehoshua, dalla riscrittura di Finale di partita di Beckett a quella di Dürrenmatt ne La vedova Socrate. Questa predilezione per il pastiche ci permette di evocare un’altra categoria estetica,  il camp, l’uso ironico del kitsch, di cui in Italia il rappresentante più significativo è stato Alberto Arbasino (e oggi nelle arti visive Francesco Vezzoli). Fabio Bo ha scritto che guardando alcune scene di Parigi o cara, ad esempio i costumi volutamente eccessivi, ci si rende conto che Almodóvar non ha inventato nulla.

Almodóvar ha in realtà “inventato” una forma di melodramma camp, e questo ci permette di chiudere ricordando il rapporto di Franca Valeri con questo genere artistico che è anche un’estetica, come sostiene Brooks: sia la sua attività di promozione dei cantanti giovani, sia le sue regie liriche, sia infine il suo rifacimento di un’opera iconica, Tosca e altre due (2003), di Giorgio Ferrara, con Adriana Asti, prima pièce teatrale e poi film.

Donna di scena e donna di libro (declinando al femminile un bel titolo di Ferdinando Taviani), colta, ironica, melodrammatica, tragicomica, camp: una attrice-autrice che a 100 anni sa ancora sfidare le categorizzazioni della critica.

Riferimenti bibliografici
F. Bo, Lady D., in E. Martini, a cura di, Franca Valeri una signora molto snob, Lindau, Torino 2000.
P. Brooks, L’immaginazione melodrammatica, Pratiche, Parma 1985.
R. Ceserani, Elogio dell’eclettismo, Aracne, Messa a fuoco #27, dicembre 2015.
G. Contini, La cognizione del dolore, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970.
A. Emi, Franca Valeri. L’opera e il mito, Aracne, Roma 2017.
F. Taviani, Uomini di scena, uomini di libro, Il Mulino, Bologna 1995.

*Questo articolo rielabora il testo della laudatio pronunciata dall’autore in occasione del conferimento della Laurea honoris causa a Franca Norsa in arte Franca Valeri da parte dell’Università dell’Aquila il 10 maggio 2017.

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