Tra le curiose scoperte della 74ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino c’è un’opera misteriosa, inclassificabile nella sua eccentricità, inaspettata vincitrice dell’Orso d’argento per la regia. Giochi di luci e ombre ne caratterizzano i primi minuti. Frame bianchi si alternano a quelli neri, mentre sentiamo le trasmissioni radio di quella che parrebbe essere un’operazione militare. Un televisore mostra immagini del servizio sul blitz che ha portato all’uccisione di Pablo Escobar. Volti di soldati, dentro un veicolo e pronti a un intervento militare, sono illuminati a intermittenza dalle luci calde dei lampioni. Poi, di nuovo bianco e nero, luce e ombra. Rimane solo il rumore continuo degli spari, che progressivamente scivola verso un bizzarro motivetto musicale.

È la storia di Escobar? No, o meglio, quasi. La musichetta si trasforma in versi indistinguibili e grotteschi. Una ripresa aerea ci introduce sulla riva del fiume Okavango, in Africa. Man mano che la camera scende, forme spiaggiate dalle dubbie sembianze diventano sempre più chiare: sono ippopotami e quei versi, che ben presto diverranno parole, provengono da Pepe. Se Béla Tarr con Il cavallo di Torino (2011) abbandona Nietzsche per immaginare cosa capitò al cavallo “responsabile” della prima manifestazione pubblica di follia del filosofo, Nelson Carlo de los Santos Arias con Pepe (2024) sembra, almeno sulla carta, rielaborare con irriverenza la stessa idea di partenza. Strappato all’Africa e portato in Colombia, cosa è successo all’ippopotamo di Escobar?

Così come Joe Gillis in Viale del tramonto (1950) o Lester Burnham in American Beauty (1999), la voice over di Pepe – che alterna l’afrikaans allo spagnolo – denuncia fin da subito la propria morte e si propone di accompagnarci nel ripercorrere quella storia che “non sa spiegarsi perché conosce”. L’estrema commistione di generi, stili e linguaggi rende Pepe un’opera, come già accennato, inclassificabile e per questo diventa complesso comprendere fino in fondo il peso che potrebbe avere un discorso sociopolitico al suo interno. Discorso che sicuramente chiama in causa il tema del colonialismo e dell’Africa meta turistica per l’Occidente, ma che sembra trovare forza soprattutto nell’idea di Pepe quale simulacro dell’eredità, dell’onta, lasciata dal narcotrafficante al paese.

Pepe appare un semplice animale della savana, non intenzionato ad attaccare l’uomo e a cui piace “essere calmo come l’acqua del fiume”, che si ritrova a diventare una misteriosa creatura che si nasconde nel fiume Magdalena in Colombia terrorizzando gli abitanti. Bestia che la polizia sostiene essere “l’animale più pericoloso del mondo” e che “quattrocento persone muoiono ogni anno per colpa sua”. Nella seconda metà, difatti, con il cambio di prospettiva da animale a umano il film assume più volte i codici del monster movie, con tanto di pescatori a caccia del mostro e la testa di Pepe che emerge silenziosa dall’acqua come Nessie. La camera è spesso fissa nel riprendere con pazienza l’ondeggiare della superficie del fiume, inducendo così lo spettatore a immaginare ciò che vi si potrebbe nascondere al di sotto, ma che non abbiamo la possibilità, o capacità, di vedere – a meno che la ripresa non si immerga a sua volta – perché un ippopotamo “può resistere sott’acqua fino a cinquanta minuti”.

Non soltanto Pepe presenta una crasi di generi – commedia grottesca, dramma sociale, monster movie, atipico biopic –, ma dal punto di vista linguistico il confine messo in discussione è soprattutto quello che separa realtà e finzione, testimonianza e messinscena. Momenti esplicitamente recitati o coreografati (la discussione marito-moglie) si alternano, intrecciano, ad altri esplicitamente documentari (le immagini di repertorio, soprattutto televisive), mentre in molte altre occasioni questa distinzione diventa pressoché impossibile da stabilire, assistendo a un vero e proprio abbattimento dei confini. De los Santos Arias si sofferma spesso a osservare quei luoghi naturali e gli animali che li abitano, le strade di Cocorná e i suoi abitanti, con l’occhio del documentarista curioso di catturare ed esporre quelle immagini, quella realtà.

A tal proposito, un particolare momento sembra sintetizzare questo spirito di incertezza: una scena che, senza troppa fantasia, potremmo definire “della foglia. Una lunga carrellata in avanti sorvola l’acqua di un fiume circondato dagli alberi di una fitta foresta. Non si comprende se si tratti di una ripresa “semplice” o di una soggettiva, ma arrivati a un’ora e mezza di sregolatezza, forse, non è più un dubbio che ci si pone. Ad un tratto una lunga foglia che pende dal ramo di un albero, intralciando il percorso della camera, sbatte sullo schermo con violenza e fragore. È un evento che sorprende e aggredisce lo spettatore – tanto alla vista quanto all’udito – riportandolo alla condizione di dubitare delle (poche) certezze sviluppate, anche in modo retroattivo. Subito dopo, non a caso, ci è mostrata la piccola imbarcazione che setaccia la zona alla ricerca dell’ippopotamo: sul mezzo non sembra esserci nessun ostacolo plausibile che giustifichi una soggettiva. È quindi forse l’occhio diegetico del documentarista? Se sì, quante altre volte è stato presente?

Ogni cosa in Pepe vive di una sua ambiguità che si manifesta spesso tramite una contraddizione, fin dal già citato bianco che si contrappone al nero iniziale. Siamo chiamati a ripercorrere una storia che al tempo stesso non è una storia, bensì un ulteriore intreccio di racconti, situazioni, aneddoti, credenze. C’è la narrazione sulla caduta del regno di Escobar in televisione, la vita quotidiana di un uomo non amato, le tradizioni dei namibiani sulle mitiche capacità degli ippopotami e quelle degli animali sul grande padre ippopotamo. E in tutto questo, a tentare di fungere da filo conduttore, si intrufola la storia del «primo e ultimo ippopotamo ucciso nelle Americhe», il cui blitz si confonde con quello del narcotrafficante. Fino ad arrivare all’ultima immagine prima dei titoli di coda, in cui persino l’animazione irrompe nel quadro rilanciando ancora una volta il gioco.

Il film finisce e, dopo qualche secondo di nero, il titolo fa la sua comparsa su uno sfondo bianco. Sotto, in piccolo, un «Parte 1» suscita altri interrogativi. Il dubbio su cosa si è appena visto diventa sempre più grande e definirlo sempre più difficile. Utili risultano le stesse parole del protagonista, per un’opera che appare come “un’esibizione di razze miste in cui ci siamo abbracciati e abbiamo marciato insieme, nonostante fossimo diretti verso la distruzione. Era autentico, ma al contempo ingannevole. Serio, ma giocoso. L’atto reale e l’ombra della mia vita. Un miscuglio barocco, eccessivo, opaco ed eterogeneo”. Questo è Pepe.

Pepe. Regia: Nelson Carlo de los Santos Arias; sceneggiatura: Nelson Carlo de los Santos Arias; fotografia: Roman Lechapelier, Nelson Carlo de los Santos Arias, Camilo Soratti; montaggio: Nelson Carlo de los Santos Arias; interpreti: Jhon Narváez, Sor María Rios, Fareed Matjila, Harmony Ahalwa, Jorge Puntillón García, Shifafure Faustinus, Steven Alexander, Nicolás Marín Caly; produzione: Monte y Culebra, 4 à 4 Productions, Pandora Film, Joe’s Vision; distribuzione: MUBI; origine: Repubblica Dominicana; durata: 122’; anno: 2024.

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