Tutti sanno che filosofia significa letteralmente “amore per la conoscenza”, ma non tutti sanno che rispondere alla domanda che cosa è la filosofia sia una delle sfide più impegnative per i filosofi. Nell’espressione “amore per la conoscenza” si nascondono questioni che richiederebbero già un atteggiamento filosofico per essere risolte: cosa significa amare qualcosa? Che cosa è la conoscenza? Cosa significa amare la conoscenza? Il carattere aperto di queste domande, ovvero l’impossibilità di rispondere a queste domande in modo ostensivo (ad esempio, “il tavolo è rosso? Si, guarda! Il tavolo è rosso”) o in modo logico-matematico (ad esempio “2+2 a quanto è uguale? 2+2=4”), ci pone il problema di possedere una definizione preliminare di filosofia per poter rispondere alla domanda che cosa è la filosofia.
Questa difficoltà nel definire se stessa è una questione che, come si può ben comprendere, accompagna la filosofia sin dalla sua nascita e ha coinvolto la maggior parte di quelli che oggi identifichiamo come filosofi. In Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale (Raffaello Cortina, 2020), l’approccio di Luciano Floridi a questo classico della disciplina è inserito nel complesso quadro della rivoluzione digitale. Negli ultimi anni il mondo è radicalmente cambiato: la diffusione silenziosa ed ubiquitaria delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), rende insignificante ogni distinzione tra online e offline, mutando il quadro entro cui comprendiamo l’esperienza umana. Floridi fa riferimento a questa nuova natura dell’esperienza nei termini di onlife: una vita in cui la connettività è parte strutturale e formante della realtà. La rivoluzione dell’informazione ha in questo la sua cifra rivoluzionaria: mediante l’avvolgimento del mondo da parte delle ICT ha dato vita a un ecosistema artificiale in cui le macchine elaborano la realtà prima che questa si presenti alla coscienza umana. Gettando le basi di un mondo in cui è possibile programmare l’oggetto dell’esperienza umana, come una macchina a guida autonoma che sfrutti le informazioni ambientali per prevedere un incidente ed evitarlo, senza che di fatto l’automobilista si renda conto del pericolo.
Con il termine infosfera si fa riferimento alla realtà interpretata in senso informazionale ovvero in quanto costituita da informazioni. Ciò significa comprendere anche noi stessi in quanto enti informazionali: il corpo umano “cattura” l’informazione dall’ambiente attraverso i sensi e mantiene il suo equilibrio interno scambiando informazioni tra le sue parti. Tuttavia, c’è una differenza di natura sostanziale tra noi e le macchine: gli umani sono enti biologici, le macchine sono enti digitali. Questa diversità ha delle importanti ripercussioni sul modo in cui gli uomini e le macchine vivono l’infosfera. Negli ultimi anni il mondo è stato gradualmente avvolto dalle nostre ICT e questo ha portato a una conformazione dell’infosfera in cui il digitale si muove “meglio”. Questo fenomeno è conosciuto con il nome di Big Data che – qualcuno potrebbe esserne sorpreso – può essere inteso in almeno due modi: uno al plurale, i Big Data; e uno al singolare il Big Data.
Si sente spesso accostare tale termine a una serie di riflessioni intorno ai vantaggi conoscitivi che porterà la gigantesca mole di dati prodotta dal boom delle tecnologie digitali all’inizio del XXI secolo: così, l’espressione Big Data da una parte indica il cumulo di dati mai visto prima nella storia e costruito praticamente in toto dalle generazioni correnti; dall’altra, un fenomeno della conoscenza. Nella sua prima accezione, parleremo dei Big Data: l’insieme di tutti i dati di cui siamo in possesso, della loro gestione (dove li metto tutti questi dati?) e dei problemi legati alla privacy (di chi sono questi dati? Chi li può vedere? Chi li può usare?). Nella sua seconda accezione, il Big Data indica il problema, che in filosofia diremmo epistemologico, di elaborare criteri validi per muoverci in questo mare di dati, capirne qualcosa e generare contenuti validi di conoscenza. Oggi, a fare la differenza non è quanti o quali dati abbiamo a disposizione, ma come ci muoviamo all’interno di essi: quali dati trattenere, quali scartare, quali interrogare? In sostanza, si tratta di costruire una conoscenza.
Le ICT non cambiano solo la natura della nostra esperienza (onlife), né ci offrono solamente una nozione informazionale della realtà (infosfera), ma aprono la strada a un nuovo modo di intendere la conoscenza (Big Data): ecco perché chiedersi che cosa è la filosofia nel contesto storico della rivoluzione digitale non è un semplice divertissement filosofico, ma un tentativo serio di disegnare i contorni di una nuova teoria della conoscenza, che possa mettere a tema il rinnovato rapporto tra l’uomo e il sapere. La filosofia come design concettuale è una sorta di rivoluzione attraverso cui dovrebbe passare la disciplina stessa. Le ragioni di questo rinnovamento sono fondamentalmente due: la forza del discorso scientifico e il ruolo centrale che gioca in tema di conoscenza rappresentativa; l’emergere del nuovo tipo di conoscenza nella realtà del XXI secolo conseguentemente all’esplosione delle ICT.
Ad alcuni, nel corso del XX secolo, è sembrato che la filosofia avesse esaurito il suo slancio conoscitivo e che uno dei suoi prodotti più di successo, la scienza positiva, fosse sufficientemente matura per raccoglierne finalmente il testimone. Non è un caso, infatti, che con gli enormi progressi scientifici degli ultimi due secoli, la forza del discorso filosofico sembri essere travasata nel discorso scientifico. In questa direzione sembrano muoversi le controverse dichiarazioni dell’astrofisico Stephen Hawking, quando affermava che «la specie umana è una specie curiosa» perché «ci facciamo domande e cerchiamo delle risposte […] per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta […] così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola della nostra» – umana – «ricerca della conoscenza» (Hawking 2011).
La filosofia come design concettuale è il tentativo di rivoluzionare la filosofia mettendola di fronte a un nuovo modello della conoscenza che non faccia leva sulla tradizionale distinzione di techne ed episteme su cui si basa il metodo scientifico. Per chi non avesse familiarità con la storia della filosofia, Platone distingue la conoscenza pratica da quella teoretica e sostiene che la ricerca del Vero sia legata alla seconda. Questo perché nella Grecia Antica il sapere dei costruttori – la tecnica, appunto – non era visto di buon occhio: in parte, per la scarsa dedizione al lavoro manuale dell’elite aristocratica – di cui Platone faceva parte – e in parte, per una effettiva mancanza di codificazione del sapere pratico: «Il lavoro del falegname è di costruire il timone, e il navigatore deve dirigerlo, affinché il timone sia costruito correttamente» (Cratilo, 390d).
Per Platone è chiaro che tra il falegname e il navigatore, chi conosce davvero le qualità del timone è il navigatore. Il falegname possiede giusto le competenze tecniche per realizzarlo, mentre è il marinaio che valuterà, una volta in acqua, se il timone corrisponde all’idea di un buon timone o meno. La teoria della conoscenza di Platone indaga il fenomeno di rappresentazione di una conoscenza – oggi diremmo: come una qualsiasi legge della fisica sta al fenomeno che descrive. È una posizione che indaga la conoscenza nel suo carattere mimetico ed ha a che fare con l’esperienza maturata sul lato utente (il navigatore che usa il timone). La scienza è il metodo per usare la conoscenza al fine di rappresentarla.
Tuttavia, noi oggi non saremmo molto d’accordo con Platone: «È vero che un normale utente conosca meglio di Apple le qualità di iPhone?», si chiede spesso Floridi. La questione qui non è determinare se Platone abbia ragione o torto, ma capire se ci sia un’altra conoscenza da indagare per la filosofia che altrimenti, come dice Hawking, muore nel nascere del metodo scientifico. Come abbiamo visto, il Big Data pone il problema di costruire una conoscenza e non semplicemente di rappresentarla. Contrariamente a quanto si possa pensare, possedere grandi quantità di dati può risultare problematico e c’è una profonda differenza tra i dati e la conoscenza che ne possiamo avere: possedere grandi quantità di dati è come essere in una “giungla” in cui è davvero difficile muoversi, mentre la conoscenza che possiamo avere su quegli stessi dati assomiglia alla strada che noi tracciamo nella giungla per arrivare da una parte all’altra: se ti sei orientato bene, ne esci sano e salvo, ma se non ti sai orientare, può anche essere che nella giungla ci muori.
La filosofia intesa come design concettuale è il tentativo di costruire una prima bussola per l’uomo che si avventura in questa giungla informazionale. Si tratta di studiare una teoria che indaga le ragioni per cui è possibile costruire una conoscenza valida: una teoria poietica della conoscenza. In altre parole, si tratta di una filosofia che «sappia porre le domande giuste in modo da ottenere risposte rilevanti e significative» – dalle scienze e dall’esperienza – e accetti «l’impegno preso dal domandare e completarlo con l’impegno del rispondere» alle stesse scienze e alla stessa esperienza.
Riferimenti bibliografici
S. Hawking, Il grande disegno. Che cosa sappiamo oggi dell’universo, Mondadori, Milano 2011.
Platone, Cratilo, Laterza, Roma-Bari 1996.
Luciano Floridi, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Raffaello Cortina, Milano 2020.