Nel saggio L’acinema (1973) di Lyotard è compendiato tutto lo “spirito del tempo”. Lyotard dice che ci sono due modi di fare cinema: uno pirotecnico-anarcoide e uno mercantile-capitalistico. Nel cinema pirotecnico la pellicola viene impressa con «differenze sterili», folgorazioni, immagini che sono come fiammiferi: non i fiammiferi che usiamo di solito per i fornelli, ma quelli che accende il bambino – piccolo piromane – soltanto per il piacere di sentire il legno sfrigolare, guardare la fiamma ardere e poi spegnersi. Il cinema pirotecnico è fatto di flashes che si perdono nel nero della notte o nel tempo di una dissolvenza, senza che il regista abbia troppo a curarsi della sintassi e della coerenza narrativa. L’immagine è una differenza “sterile” perché tra di esse non c’è un concatenamento logico-narrativo. Ogni immagine fa fazione a sé, non “genera” e non “produce”, tutto rimane sospeso in uno stato colloidale fatto di urti che rispondono a un principio di piacere mescolato a thanatos. Poi c’è quello che i giovani turchi dei “Cahiers” chiamavano le cinema à papa, i film che piacciono ai vecchi perché hanno una sceneggiatura solida, consistente.

Il legame tra le immagini, la «messa in ordine di movimenti», «l’istanza di identificazione» mettono capo al «film prodotto dall’artista nell’industria capitalistica». Quest’ultimo è un film narrativo e “realistico” perché mima la triste coerenza della vita quotidiana: alzarsi dal letto, andare in bagno, accendere il fiammifero per farsi il caffè, uscire di casa e aspettare il tram. Il film “realistico” è anche “capitalistico” perché i suoi tratti strutturali concorrono per formare «un corpo omogeneo e propagatore, un insieme riassemblato e fecondo che saprà trasmettere, non perdere, ciò che porta con sé». Questo corpo filmico è fatto a immagine e somiglianza dei suoi spettatori: è artritico, impaurito, sparagnino, incapace di qualsiasi dépense.

Raoul Kirchmayr compendia così le pagine di Lyotard: «Il cinema può funzionare o come dispositivo ideologico che addomestica lo sguardo imprigionando le pulsioni o, al contrario, come dispositivo che permette di creare delle intensità energetiche e che libera le pulsioni. In breve, c’è un cinema che si inscrive da parte a parte nella logica del capitalismo supportandone la funzione ideologica fondata su un godimento promesso e sempre rinviato […]. All’opposto c’è un cinema che si pone come contestazione di questo tipo di funzionamento». Lyotard, ma anche Sartre, Merleau-Ponty, Derrida, Nancy e Didi-Huberman, sono i filosofi intorno a cui Kirchmayr argomenta per dare un ritratto dell’estetica francese del Novecento, soprattutto quella fenomenologica, più o meno husserliana, più o meno eretica. Ma per una fenomenologia radicale, capace di scavare dentro se stessa, «la posta in gioco consiste nel cambiare scena e avviare una decostruzione del soggetto metafisico come osservatore puro e per far emergere un differente statuto della soggettività».

Quando si mette a immaginare, il soggetto viene ricondotto alla propria potenza intenzionale, recide le pastoie che lo compromettono con il mondo-ambiente e s’insignorisce di quella forza di nientificazione che è la versione sartriana dell’epoché: «La coscienza è libera dal mondo perché immagina, l’immaginazione è la possibilità ab origine che la coscienza ha di de-mondanizzarsi e di riguadagnare la propria libertà». Il soggetto immaginante prende le mosse dal proprio nulla per intendere quel niente-di-mondo che è l’assenza dell’oggetto immaginato. Questo percorso dal nulla al nulla è anche positivo, produttivo, perché, alla fine, le assenze dell’immaginazione sono le fratture e discontinuità sui cui bordi si costituisce l’integrità del mondo percepito. Le onde bergsoniane che increspano la superficie piatta della sua fenomenologia trascinano Sartre verso il «cinema come arte del movimento e del continuo», corteo d’immagini immerso «nel tempo concreto e quotidiano, nella durata», nella cui sfilata «appare “l’inhumaine necessité” della vita».

Di questa scena doppia, fatta di possibilità contradditorie (cinema di consumo/cinema pirotecnico, soggettività demondanizzata/soggettività pre-umana e carnale) consiste la «costitutiva ambiguità dell’immaginario», l’ambiguità dell’immagine soprattutto cinematografica e pittorica: c’è l’immagine-opera, la traccia, ma anche il movimento di produzione dell’immagine, cioè «il movimento delle forze che danno forma agli enti». L’ambiguità dell’immagine, dunque, è estetica, ma anche ontologica. Il doppio statuto dell’immagine «traduce la differenza ontologica tra l’essere  e l’ente». La differenza tra l’immagine-racconto e l’immagine-movimento, il figurativo e il figurale, il logico e il pirotecnico, è la differenza tra l’ente e l’essere. L’immagine è una passione: l’evento figurale è un «eccesso patetico».

Nel nostro commercio con le belle arti ciò che è determinante è l’«impressione che avrà avuto luogo prima ancora della nostra percezione», lo «choc d’incertezza figurale» – come lo chiama Derrida –, l’«estraneo che proviene dall’esterno» , l’«esposizione a un essere alogos». Ma l’esperienza dell’esposizione deve pur avere un contraccolpo, la sua passività non è illimitata, noi non possiamo non rispondere allo choc. L’esposizione, lo choc, il figurale, sono la parte ontologica dell’incontro; la nostra risposta, la replica – necessariamente logico-narrativa – alla sollecitazione figurale è invece la parte ontica. L’incontro con l’immagine è pur sempre una «questione di dono, di debito e di scambio», cioè una questione economica.

Il debito, lo scambio, sono il patto che il figurale-ontologico stringe con il logico-ontico. Patto necessario, perché a rigore «ciò che si rende visibile non è mai la forza in quanto tale, ma il suo stesso passaggio, che è sempre passaggio alla manifestazione di sé. Manifestarsi significa qui svanire come forza e permanere come impressione, il che vuol dire come traccia». Se ciò che passa è lo choc figurale, l’ontologico, la parte del fuoco, il fiammifero acceso per il puro piacere di sentirlo sfrigolare e vedere consumarsi, di che cosa è fatto, allora, ciò in cui è passato ciò che passa? Questo fiammifero non brucia sterilmente, perché viene integrato nel «circuito del capitale: merce-fiammifero –> merce-forza lavoro –> denaro-salario –> merce-fiammifero».

L’analisi di questa ambiguità economica occupa Kirchmayr almeno dal suo libro del 2002 dedicato a Mauss, Sartre e Lacan. In un saggio più recente Kirchmayr prova a darci il panorama desertificato della nostra risposta ontica: il «modello capitalistico» ha condotto «un processo di costruzione tecnica della società grazie a Umwelten che funzionano omeostaticamente e garantiscono così la loro stabilità sistemica attraverso la costante riduzione dell’impatto sull’intero sistema provocato dai fattori estranei, potenzialmente destabilizzanti e perfino distruttivi». La risposta del capitalismo è l’equazione: techne + sovranità = sistema. La risposta è il sistema. Il sistema è fatto di un «principio d’ordine» di natura economica che «permette la costruzione di un mondo-ambiente e necessita di regole e codici con cui il mondo-della-vita viene domesticato attraverso un’operazione di traduzione e riscrittura». Il sistema capitalistico significa la chiusura a riccio di gruppi umani e organismi sociali aggrappati al proprio equilibrio interno, incapaci di subire la seduzione dello choc figurale e di ri-organizzarsi in maniera differente.

La mia domanda a Kirchmayr è: ammesso che questa chiusura a riccio sia una descrizione esatta della condizione presente, in che cosa «il mondo forgiato tecnicamente e su scala globale dal capitalismo» si distingue da ciò che “capitalismo” non è, per esempio dal “comunismo” fatto di potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese? Quest’ultimo, rispetto al “capitalismo”, è più sensibile allo choc del figurale e all’ambiguità dell’immagine? Anche dentro il “capitalismo” ci sono esperienze abbastanza selvagge e forse è soltanto colpa nostra non capirle. Ne Il tallone di ferro Jack London immagina un mondo distopico in cui il “grande capitale” americano ha soffocato nel sangue ogni velleità rivoluzionaria.

Ma in questo mondo, fatto della miseria di molti e della felicità di pochi, viene fatta costruire Asgard «la città meravigliosa», con le sue mura turrite, le cattedrali e le guglie alle quali hanno lavorato per cinquantadue anni centinaia di migliaia di artisti. Nonostante le storture, le crudeltà, le ingiustizie, le sperequazioni, le lacrime che conosciamo fin troppo bene, non è per nulla ovvio che le risposte ontico-capitalistiche dell’Occidente sono censorie e castranti come alle volte ce le immaginiamo, se è vero che questo sistema sociale permette – tra le altre cose – che si scrivano libri come quelli di Kirchmayr, con dentro le domande, le interrogazioni e i dubbi radicali che ci fanno pensare.

Riferimenti bibliografici
J.-F. Lyotard, L’acinema, in “aut-aut”, n. 338, Il Saggiatore, Milano 2008.
R. Kirchamyr, Il circolo interrotto: figure del dono in Mauss, Sartre e Lacan, EUT, Trieste 2002.
Id., Autoimmunità, tardo-capitalismo, tecno-fascismo, in “aut-aut”, n. 350,  2011.

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