Arabian Nights (Gomes, 2015).

Al ritorno dai viaggi, siamo soliti scambiarci le esperienze fatte. Facendone racconto, divengono altre esperienze: di messa in forma, di condivisione, a render conto a sé e ad altri – che fanno così (ancora) esperienza d’ascolto e immaginazione – di percorsi intrapresi, di programmi rispettati e inattesi détours, occasioni, incontri, eventi. È quel tipo di esperienza che Benjamin chiamava, lamentandone il depauperamento, Erfahrung: sedimentazione a carattere dinamico-processuale, precipitato del rapporto io-mondo attraverso il quale leggiamo le cose e ci leggiamo, e scriviamo.

Il gesto di viaggiare-leggere-scrivere-scambiarsi il mondo, mettere in opera il nostro rapporto con quello, è tra i più frequentati dal cinema del reale, fatto spesso da cineasti erranti (Herzog, ovviamente) e che, in una creativa erranza in grado di sperimentare forme e linguaggi su se stesso mentre sperimenta sul reale che incontra (Marker, ad esempio), ha oggi la sua cifra più feconda.

È allora come luogo privilegiato di interrogazione sul cinema stesso e sul mondo, “viaggiato” con primodiale stupore e rispetto, che il complesso territorio del documentario contemporaneo può essere esplorato. Muovendosi nel suo movimento, costruendo possibili mappe: è un po’ questo La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo (Mimesis, 2018), di Daniele Dottorini.

«Affrontare l’universo del documentario significa infatti muoversi all’interno di un luogo aperto e multiforme, che necessita di essere attraversato e pensato, proprio perché è un luogo dove nuove e meno nuove forme di cinema entrano in gioco, si ibridano, si sperimentano» (p. 42).

 

Quasi che il libro partecipasse, riflettendole, di certe caratteristiche e motivi del suo oggetto (del resto, Godard sosteneva: «Scrivere significa già fare del cinema»), ecco che si configura come un percorso critico teorico che ha le sue tappe nella lettura di singoli film, autori, situati in un ricco orizzonte concettuale dove idee chiave della contemporaneità sono pensate attraverso le immagini del cinema del reale. Si tratta di un cinema che si misura con l’esperienza del Reale accostato come qualcosa che “fa problema”, che solleva domande, che sfida, in qualche modo.

Un punto di riferimento teorico del percorso del libro è infatti, come da titolo, l’idea di “Passione del Reale” sviluppata da Alain Badiou ne Il Secolo (2006). Passione cui è consegnato il Novecento, soggiogato da un Reale che con la sua violenza eccede la possibilità di pensarlo e rappresentarlo, e che in arte ha dato luogo a pratiche accomunate da una vis tesa a smontare finzioni, schemi, per cogliere il mondo al di là di false apparenze, o a riduzioni dello scarto tra rappresentazione costruita ed emergenza del reale. È sulla messa in forma di quello scarto fecondo, soprattutto, che lavora il cinema del reale, che riprende (o è ripreso) da quella Passione.

Alla lettura delle forme in cui l’idea di Passione del Reale si propaga nel documentario contemporaneo, al senso che vi assume, è dedicata la prima parte del testo. Le due successive, densamente teoriche, sono dedicate all’analisi dei modi in cui il cinema del reale sa ripensare le categorie trascendentali di possibilità del cinema stesso: spazio (in movimento, ad esempio, rimodulabile così da coloro che l’attraversano come dalla macchina da presa, ma – in un’efficace lettura agambeniana – inappropriabile e di libero uso come in People’s Park di Sniadecki e Cohn, 2012) e tempo (dell’evento eccedente, per esempio, restituito trascegliendo al montaggio più soggettive di coloro che lo vivono, come in Tahrir. Liberation Square di Savona, 2011).

Il punto di partenza del percorso di Dottorini è l’idea, sostenuta con forza, che sin dalle origini del cinema «lo sguardo della macchina da presa è stato al tempo stesso una “presa” del reale e una sua reinvenzione fantastica» (ivi, p. 7). L’opposizione Lumière/Méliès è dunque uno schematismo di comodo: il cinema è invece costitutivamente ibrido, attraversato da una dialettica continua tra quelle che non sono tanto da concepirsi come due polarità avversarie, quanto attitudini tecniche e linguistiche co-originarie, e intersecatesi nella storia del cinema. 

In questi termini il cinema del reale è capace di ripensare il rapporto realtà-finzione, in lavori giocati per esempio proprio sulla tensione a costruire storie e al contempo a documentare. Che è il tipo di interrogativo che sembra emergere da film come La mille e una notte (2015) di Miguel Gomes. Si tratta di un cinema animato da uno sguardo (attitudine, idea, prassi) documentario, che discendendo da una tradizione di esperienze già multiformi (Flaherty, Vertov, Leacock, il Direct Cinema dei Maysles), è soprattutto continua creazione di forme e linguaggi, nuove immagini del mondo anche costituendosi come «laboratorio di riflessione sul cinema stesso» (ivi, p. 13).

In questa accezione, argomenta felicemente l’autore, il cinema del reale è definibile (anche) come empirista ed eretico, secondo la formula pasoliniana. Stare «fisicamente sempre a livello della realtà» (Pasolini 2005, p. 235), fare i conti con le cose nella loro concretezza e flagranza, dirle con le cose stesse, sperimentando a livello empirico le proprie forme girando e montando: fare tutto questo ereticamente è trascendere la regolarità (che pure l’empirismo si sforza di cercare) in favore di una libera e continua attività di interrogazione e invenzione, dove la realtà è il punto di partenza (di nuovo: il viaggiare) per la creazione poetica. Che è la strada percosa, per esempio da Chris Marker: Sans Soleil (1983); Si j’avais quatre dromadaires (1966), o Patricio Guzmán: Nostalgia de la luz (2010); Mi Julio Verne (2004).

Questo sperimentare sul reale, sul cinema, che è un creare, opera in una temperie tecnologica e culturale definita, con l’espressione di Marie-José Mondzain, Impero della visibilità, e, soprattutto, di scetticismo oltranzista (forse ultimo esito di un indiscriminato e acritico esercizio del sospetto, di ascendenza postmoderna, improduttivo, nè emancipativo) che è al fondo un nichilismo ontologico, spesso dall’atteggiamento iconoclasta nei riguardi di ogni immagine, ritenuta per forza mendace. Filmare, allora, la «credenza in questo mondo, il nostro unico legame» (Deleuze 1988, p. 192) quanto più sembra essersi rotto, credere all’immagine e ai rapporti e legami che essa sottende, il mondo con le sue finzioni e narrazioni che legano i soggetti tra loro e al mondo: la nuova sfida della Passione del Reale del nostro tempo, il suo far problema, ha in questo il suo movimento fondante.

È, anche, una resistenza appassionata al venir meno dell’Erfahrung, che Benjamin faceva risalire a un suo eccessivo fragore, che la rendeva insostenibile e all’intorpidimento della capacità umana di metterla in forma nelle anestesie degli automatismi tecnologici e dell’informazione. Se in Austerlitz (Loznitsa, 2016), i turisti del lager sembrano non fare esperienza alcuna, persi nei dispositivi, pure il gesto registico (critico, empirico, eretico) del cinema del reale crea, ancora, una forma per cui si possa dire come il mondo è visibile, realmente, credibile.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006.
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1988.
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Udine 2018.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2005.

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