Macbeth Neo Film Opera

Macbeth Neo Film Opera (Campea 2017): ecco un oggetto alieno, un film davvero anomalo perfino nella durata (50 minuti), che nasce dalla messa in scena teatrale del Macbeth di Shakespeare, reso quasi irriconoscibile da Claudio Di Scanno (qui attore, nel ruolo di Banquo), rappresentato un paio d’anni fa in una fabbrica abbandonata dell’Abruzzo, ulteriormente trasfigurato dal giovane regista Daniele Campea (già autore di alcuni notevoli documentari), mescolato a brani di Verdi e a musiche elettroniche. Ma Campea, regista e compositore, non filma un’opera, né un musical, né uno spettacolo teatrale. Potremmo dire che si cimenta nell’impresa di filmare il buio, il nero, l’ombra, l’invisibile, gli orrori e i fantasmi del rimorso, più che le vicissitudini dell’ambizione, gli inganni delle streghe, i giochi tortuosi del potere. È come se, nel suo farsi, lo spettacolo fosse negato, la visione accecata. Non solo: le parole stesse si riducono a sussurri e grida, quasi sempre rese volutamente incomprensibili dal sovrapporsi della musica.

Film girato a bassissimo costo, ma lunga la fase di post-produzione: accurato (perfino eccessivo, si potrebbe dire) il trattamento delle riprese in digitale, lavorate in modo da evocare addirittura la resa contrastata delle vecchie pellicole ortocromatiche. Risultato: un film in nero, in cui spesso spiccano solo i volti bianchi degli interpreti, le rughe accentuate dei primi piani; qualche sprazzo di cieli nuvolosi, qualche gruppo d’alberi, qualche castello in rovina, l’apparizione d’uccelli rapaci. I personaggi sono circondati dal buio, appaiono e scompaiono, come apparizioni. Dal buio, alla fine, sono tutti inghiottiti. Dal buio e dalle tonalità funebri del Requiem verdiano. Quasi non c’è tempo per il sorgere del rimorso. Si direbbe che subito l’azione, per quel poco che se ne vede, nasca sotto malefici influssi, come se Macbeth e Lady Macbeth fossero condannati a soffrire per le azioni che debbono ancora compiere. Come se i delitti (il tradimento, l’uccisone del Re, di Banquo…) fossero già da sempre compiuti, magari su altri palcoscenici, su altri schermi, e non restasse che espiarli, portarne per sempre la colpa.

Evocando altri schermi, dove Macbeth conduce la sua avventura di potere e di morte, non intendiamo riferirci ai film di Welles, Kurosawa, Polanski o Béla Tarr, classici dove Shakespeare è riconoscibile, Macbeth incontra le streghe e pronuncia le sue battute più o meno canoniche: le urla, il furore, la storia raccontata da un idiota. Qui, come già avveniva nella messa in scena di Di Scanno, è come se il teatro e il testo letterario si nascondessero, lasciando il campo a un’oscurità perenne, che corrisponde alle tenebre interiori dei protagonisti. Sono i loro fantasmi ad agitarsi o, se si preferisce, gli incubi prodotti dal sonno della loro ragione.

Ma veniamo al punto forse più delicato, quello che suscita comunque maggiore curiosità: perché Macbeth è interpretato da un’attrice (Susanna Costaglione)? La scelta deriva dallo spettacolo teatrale, i cui ruoli Campea ha per gran parte ripreso; ma ci si rende conto, vedendo il film, che in realtà il problema non esiste.

Shakespeare, ormai, è lontano, ma lontana è anche ogni pretesa di “interpretazione” in senso classico. I personaggi ci suggeriscono una visione della Storia (del suo senso, o piuttosto del suo non-senso), nel momento in cui, avendo già perso se stessi, tornano ogni tanto dal buio alla visibilità. L’attrice si trasforma, allora, in una vera e propria “macchina attoriale” (nel senso di Carmelo Bene, sedicente odiatore della presenza femminile sul palcoscenico) o di “macchina celibe”. Celibe come la macchina di Duchamp, celibe come tutte le macchine. Il genere sessuale del personaggio shakespeariano e quello dell’attrice, da un lato perdono importanza (le macchine non hanno genere sessuale), dall’altro si mescolano, prestandosi reciproci influssi. Per questo la macchina è celibe, e addirittura può essere sposata ai suoi scapoli, o divorziata dalla sua sposa come dal suo sposo, allo stesso modo del Grande Vetro.

Se a lungo è durato, nella storia, il bando delle attrici dal palcoscenico, con usurpazione dei loro ruoli da parte maschile, ebbene, già le grandi attrici ottocentesche segnano l’ora della rivincita, interpretando ruoli maschili. Qui Susanna Costaglione traccia i contorni d’una Passione, una Passione/Macbeth, anch’essa celibe, come già quella di Falconetti, Giovanna d’Arco in abiti maschili, capelli tagliati corti, sguardo allucinato, perso dietro alle sacre visioni, intenta all’ascolto delle voci che la ossessionano (La passione di Giovanna d’Arco, Dreyer 1928). Un Macbeth triste, questo della Costaglione, un Macbeth preda d’incubi, visioni e allucinazioni. Gli spettri aleggiano, incuranti del genere sessuale.

Cinema, teatro, musica, performance. Teatro d’interpreti più teatro di regia. Cinema ibrido, impuro, ambiguo, eccessivo? Certo, ma crediamo che soprattutto il cinema italiano abbia bisogno di questo, piuttosto che di prodotti “puliti” e rachitici.

Riferimenti bibliografici
C. Di Scanno, Teatro e altri luoghi. Una Teatrilogia del Drammateatro a Popoli, Condò ed., Pineto 2015.
M.R. Grifone, Il teatro e il femminile (http://www.dramma.it/dati/monografie/teatroefemminile.pdf).

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