Il cinema, per Pasolini, era l’arte di scoprire, o meglio di ri-scoprire, il sacro di corpi e luoghi, il loro contenuto mitico, perduto nel deserto della modernità: sacro che anche la riproducibilità tecnica (cinematografica) contribuiva e contribuisce, per parte sua, ad occultare e distruggere. Nella modernità tecnologica avviene la desertificazione d’ogni immagine, la riduzione d’ogni sua pregnanza e la coincidenza del tutto con il banale visibile, senza possibili sfumature o avvisaglie d’un altro senso. Le tracce del sacro e del mito vengono cancellate, il che significa cancellare storia e memoria di corpi e luoghi. Pasolini ricercava invece proprio queste tracce, anche a costo di traversare, per ritrovarle, deserti non metaforici (Marocco, Cappadocia, ecc.), seguendo la sua idea di “cinema come lingua scritta della realtà” (Pasolini 2015, pp. 208-237): idea che faceva inorridire i semiologi.
Il libro di Michele Mancini e Giuseppe Perrella, Pier Paolo Pasolini corpi e luoghi, edito per la prima volta nel 1981 da Theorema, si poneva allora come archivio e catalogazione dei “morfemi” (corpi, luoghi e oggetti) di questo linguaggio iconico, così come risaltavano nella loro concretezza attraverso i diversi film, da Accattone (1961) a Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) – ma era, al tempo stesso, se non un libro d’arte, un libro-performance, la realizzazione di una sfida impossibile e ossessiva, di cui entrava a far parte il corpo stesso di Pasolini, quasi in analogia con quell’istallazione di Fabio Mauri, ricordata ultimamente anche da Gian Maria Annovi (2017), durante la quale fotogrammi del Vangelo secondo Matteo (1964) venivano proiettai sul corpo del poeta, schermo vivente.
Di quel volume di Mancini e Perrella esce ora, dopo trentacinque anni, la versione inglese, Pasolini’s bodies and places, a cura di Benedikt Reichenbach, giovane studioso svizzero, per le edizioni P. Frey di Zurigo, traduzione di Ann Goldstein e Jobst Grapow: volume che si pone a sua volta, sotto l’aspetto di un libro d’arte, come documento di una sorta d’ossessione, quella di Reichenbach per l’enigma rappresentato dallo speaking visually, i misteriosi concatenamenti e le segrete corrispondenze del linguaggio del corpo. Questa versione inglese dei testi, oltre a porsi come omaggio e tributo postumo a uno studioso prematuramente scomparso come Michele Mancini, accentua se possibile, con le sue “parole corte”, tradotte da una vecchia lingua neolatina come l’italiano, l’importanza delle immagini, del loro concatenamento sulla stessa pagina e su pagine diverse, secondo le griglie proposte dagli autori (famiglie, famiglie del set, famiglie anagrafiche, personaggi, ritorni, modi del comportamento, mimica del gesto e del volto, nudità, morte, luoghi topografici, citazioni pittoriche, ecc.). Il volume stesso si prospetta, come la sceneggiatura secondo Pasolini, in quanto “struttura che vuol essere altra struttura”: libro pronto a tramutarsi in video-esposizione, se non in installazione – anche se non c’è più, a fare da schermo, il corpo di Pasolini – ma solo l’aleggiare del suo spettro. Spettro carnale, tuttavia, se una cosa simile può esistere, disponibile a quella “esposizione della carne” di cui qualche anno fa ha parlato Michael Hardt (2008).
Quando Pasolini considerava il cinema come la lingua scritta della realtà, usava una formula sgradita ai semiologi, ma che conteneva almeno due indicazioni preziose. 1) È una lingua scritta, dunque in essa non solo, come in tutte le lingue, non esistono (a parte poche eccezioni onomatopeiche) vocaboli “naturali”, “parole” il cui suono sia di per sé automaticamente rivelatore della cosa cui si riferiscono, ma esiste un ulteriore elemento distanziante dato dalla scrittura. Allora, in fatto di parole che si fanno corpi, bisognerà che la faccia di Totò, per esprimere di più, sia dipinta di verde e quella di Ninetto Davoli di nero. Bisognerà che tutti gli attori di Che cosa sono le nuvole? (1967) si tramutino in marionette. Bisognerà che Accattone si travesta da donna o affondi il viso nel fango del Tevere. Bisognerà che Silvana Mangano, come Assurdina, resusciti da morta più viva che da viva. Bisognerà che il Presidente di Salò o le 120 giornate di Sodoma, nell’ordinare le torture più efferate, si diletti contemporaneamente a raccontare le barzellette più stupide, ecc. 2) È una lingua scritta, sì, ma legata a doppio filo con la realtà. Anzi, più che a doppio filo, da un solo filo invisibile e tenace, come se quelle immagini, quelle tracce, quei fantasmi, che si aggirano sullo schermo, avessero pur sempre bisogno, per non affondare nell’insignificanza, di riferirsi a una categoria misteriosa e indecifrabile, che è quella dell’autenticità (non ci azzardiamo neppure a tentare di definirla). Allora è evidente che il viso di Totò (viso di maschera antica, icona di età arcaiche), i volti di Franco e Sergio Citti, di Anna Magnani, di Maria Callas, ecc., imporrebbero la loro verità a prescindere da tutte le manipolazioni cui si ritenga di sottoporli – come se a monte di ogni altra cosa, nel cinema di Pasolini esistesse una sorta di sesto senso (o di vocazione) per l’indagine antropologica (o etnografica) – guidata tuttavia dalla passione, non dalla scienza.
Il cinema per Pasolini allora avrebbe posto rimedio, per quanto solo immaginario, alla scomparsa dei corpi amati, al genocidio antropologico che secondo lui aveva distrutto intere generazioni, pianificando non tanto la bruttezza, quanto l’omologazione e l’insignificanza. In Petrolio, romanzo disperato e incompiuto, gli ex-ragazzi di vita sono diventati orrende brutte copie dei ragazzi borghesi, più orrende dei borghesi, in quanto avrebbero ormai tradito la loro antica autenticità (torna questa parola dal significato misterioso), per un finto benessere (di sola superficie), per una fittizia promozione sociale. Ma forse la vera causa della disperazione di Pasolini nasceva dal fatto di rendersi conto che la sua, fin dal principio, era stata tutta un’illusione.
Una cosa è chiara: l’arcaismo, quale si incarna per esempio nei miti, possiede, sì, un’intrinseca carica di violenza, ma questa violenza è sacra. Nella cerimonia barbarica, nel rituale arcaico espiatorio, qualcuno può essere messo a morte, ma come vittima sacrificale, cioè in vista d’una riaffermazione della vita. Cosa che gli aguzzini fascisti di Salò o le 120 giornate di Sodoma non si sognano neppure.
È comprensibile, oggi, che un poeta, uno scrittore, sia tentato di trasformare le parole in corpi e volumi, di utilizzare direttamente, cioè, “la lingua scritta della realtà”. L’umanità ha scoperto solo da poco più d’un secolo la fotografia, poi le immagini in movimento, e la possibilità di fornire loro colore, voce, illusione di volume – cioè, credendo di fare del realismo, ha perfezionato la tecnica per produrre spettri. Oggi il repertorio spettrale è vastissimo, la schiera degli spettri si aggiunge a quella dei viventi e a quella dei morti, affolla la nostra memoria di ricordi immaginari. Perfino le immagini “ferme” di fotogrammi stampati possono farlo, mettendosi misteriosamente in movimento, come in uno straordinario libro animato.
Riferimenti bibliografici
M. Mancini, G. Perrella, Pasolini’s bodies and places, a cura di B. Reichenbach, Frey, Zurich, 2017.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 2015.
G.M. Annovi, Pier Paolo Pasolini. Performing Autorship, Columbia University Press, New York 2017.
M. Hardt – L’esposizione della carne, in Corpus Pasolini, a cura di A. Canadè, Pellegrini, Cosenza 2008, pp. 61-74.