Sfogliare il libro Paolo Gioli. Impressions sauvages, appena uscito per Les Presses Du Réel, a cura di Philippe Dubois e Antonio Somaini, significa aprirsi a una esperienza duplice: da un lato, le centinaia di immagini di dipinti, fotografie, fotogrammi cinematografici che vi si trovano rivelano in maniera indiscutibile l’opera di un artista di primo piano nel contesto dell’arte contemporanea; d’altro lato, alla constatazione di trovarsi di fronte al lavoro di un grande artista si affianca l’impressione di una ricerca appartata, di una strenua volontà di minorità, di una sperimentazione silenziosa, di una vita che si è saputa esprimere in questo modo forse solo perché è riuscita a custodirsi ai margini dei grandi circuiti dell’arte. Gioli, come recita la homepage del suo sito, “è nato a Sarzano di Rovigo nel 1942. Si occupa di pittura, litografia e serigrafia. Dal 1968 sviluppa le sue ricerche di stampo sperimentale con le tecniche del film, della fotografia e del video. Vive e lavora a Lendinara”. In verità, tra Sarzano e Lendinara c’è stata, prima, Venezia, poi l’immersione nella New York underground degli anni sessanta, dove fra l’altro Gioli ha conosciuto colui che per tutta la vita sarà il suo mecenate e il suo produttore, Paolo Vampa, e infine l’esperienza romana e l’incontro con il cinema. In ogni caso, la pratica artistica di Gioli è quella di chi è capace di conquistare la grandeur di un’opera attraverso la frequentazione assidua del liminare.

Se all’interno della produzione di Gioli si volesse identificare il punto decisivo, il luogo sorgivo di tutta la sua ricerca, lo si troverebbe probabilmente nella pratica della fotografia “stenopeica” (da stenos opaios, piccolo foro), ovvero del film senza macchina da presa. Adagiate sul palmo della vostra mano una piccola lastra impressionabile, chiudete il pugno in modo da lasciare un piccolo foro capace di far passare un minimo di luce all’interno, mirate verso il vostro motivo e la cosa che risulterà, nel migliore dei casi, sarà una fotografia senza dispositivo fotografico. Per Gioli si tratta, certo, di andare all’origine della fotografia, di lavorare in levare, facendo a meno della tecnologia, per giungere sino all’essenziale di ciò che un’immagine è. Come dicono i curatori di queste Impressions sauvages, il contesto è quello di una archeologia dei media.

Ma si tratta anche di qualcosa di ulteriore: di una sorta di metafisica dell’immagine, cioè dell’idea per cui l’immagine non si aggiunge alle cose da fuori, ma è intrinseca al reale stesso ovvero, come dice Gioli, «l’immagine sta nella materia stessa, basta tirarla fuori» (Dubois, Somaini 2020, p. 43). È in questo senso che le “impressioni” di queste opere possono a giusto titolo essere dette “selvagge”, perché costituiscono come la membrana delle cose, la superficie quasi impercettibile che separa il loro dentro dal fuori, l’esse dal percipi. Non è un caso se molti dei critici che scrivono in questo volume sentono il bisogno di riferirsi a Merleau-Ponty e alla sua riflessione sull’essere grezzo delle cose e sulla carne del mondo.

Con l’aggiunta, avanzata acutamente da Dubois, che in Gioli non c’è solo l’ineludibile intreccio di essere e percezione, ma soprattutto il fatto che l’immagine stessa avviluppa l’atto che la produce, in modo tale da sottrarsi alla fruizione meramente ottica, per dar luogo ad un’esperienza propriamente “aptica”, in cui l’occhio deve far ricorso alla propria capacità di ricezione tattile. In altri termini, l’immagine prodotta dal “pugno stenopeico” non è solo un’immagine autonoma – come se l’atto da cui deriva, il gesto che la “tira fuori dalla materia”, fosse un agente neutro, che si possa dimenticare una volta presa l’immagine – ma è un’immagine che reca in sé il segno della propria produzione, del dispositivo materiale e manuale che ne ha consentito l’emergenza.

Si dirà forse che questa centralità del gesto e del dispositivo contraddice quella metafisica dell’immagine secondo cui, per parafrasare il Bergson di Matière et mémoire, la fotografia è già alla superficie di ogni cosa, prima ancora di essere scattata. Ma il punto è che le fotografie di Gioli, proprio in quanto fanno sentire nell’immagine stessa la presenza del dispositivo che le produce, non sono mai l’effetto di un agente esteriore. Al contrario, è proprio la presenza del dispositivo nell’immagine a garantire l’assenza o la cancellazione dell’autore. Il pugno stenopeico, infatti, non può che inquadrare “alla cieca” o, come dice ancora Dubois, «a tentoni», garantendo così – secondo una ratio opposta al dominio dell’“alta definizione” – che l’immagine non sia mai quella buona, mai adattata alle esigenze di una visione puramente artificiale.

Così, il lavoro dell’artista non sarà mai quello di inquadrare il mondo da un punto di vista al contempo esterno e neutrale, in base ad una “logica della finestra” che Gioli infatti si impegna con rigore a dissolvere, ma sarà invece il lavoro di chi maneggia gli strumenti al loro stadio più rudimentale, quello che permette appunto di situarsi alla minore distanza possibile dalle cose stesse. In questo senso, il lavoro di Gioli non è solo quello di chi si vuole artigiano e bricoleur, ma è anche il lavoro di chi sa di essere a sua volta lo strumento e l’opera di una natura comune – da cui una certa impressione “panteistica” che suscita la visione di queste immagini.

L’identificazione dell’immagine stenopeica come cardine dell’opera di Gioli, certo, non rende ragione degli sviluppi molteplici di un lavoro sperimentale complesso e lungo, fino ad ora, una sessantina d’anni, ma rende almeno evidente quale sia il tipo di approccio di un artista che ha trovato la propria singolarità proprio grazie al fatto che, come spiega candidamente ad Anne Cartier-Bresson, non lo ha mai interessato «l’idea di essere unico» (ivi, p. 317).

Paolo Gioli: Impressions sauvages, a cura di Philippe Dubois e Antonio Somaini, Les Presses Du Réel, Dijon 2020.

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