Venezia, dall’8 all’11 ottobre 1992. L’Associazione Italiana di Studi Semiotici celebra i vent’anni dalla sua fondazione con un Convegno sul tema della traduzione, organizzato da Omar Calabrese. Tutti i grandi protagonisti della disciplina sono lì, ma il clima è teso. La semiotica è diventata negli anni una disciplina alla moda; si sono create una serie di scissioni disciplinari, prima tra tutte quella tra la semiotica generativa di Greimas (in Francia) e quella interpretativa di Eco (in Italia e in America); alcuni dei protagonisti originari dell’avventura semiotica si vanno distaccando polemicamente dalla direzione imboccata: Cesare Segre (pure presente al Convegno) ha appena pubblicato sul Corriere della Sera un articolo molto duro in cui annuncia di fatto il suo addio alla Associazione. In questo contesto inquieto prende la parola Paolo Fabbri.

Con il suo consueto aplomb non scevro di ironia “il più italiano dei semiologi francesi”, come qualcuno lo chiama, annuncia che rinuncerà a fare un intervento teorico: preferisce raccontare una storia. Ricordo bene lo sconcerto del pubblico (ero lì, giovanissimo studioso alla corte di Gianfranco Bettetini), destinato a crescere mano a mano che il racconto di Paolo procede. La storia è quella di Shabbetai Zevì, un rabbino, mistico e cabalista di Smirne che nel 1648 si proclamò il Messia. Muovendosi tra Costantinopoli, Salonicco, Gerusalemme e il Cairo, Zevì raccolse consensi crescenti, suscitò entusiasmi indescrivibili, fece sì che intere comunità si preparassero al ritorno in Palestina per l’apocalisse attesa per il 1666. Ma proprio in quell’anno venne denunciato da comunità ebraiche rivali, trascinato in catene davanti al sultano Mehmed IV e qui, con un gesto spettacolare, si convertì pubblicamente all’Islam.

Come interpretare il gesto di Zevì? Apostasia? Tradimento? La lettura di Paolo è netta:  Zevì è un vero profeta proprio in quanto nega il sistema di pensiero e di discorso che lo ha reso tale e cerca di incarnare in sé stesso la traduzione tra due sistemi differenti: ebraismo e religione mussulmana; il fatto che fallisca e che i due sistemi semiotici si rivelino intraducibili aggiunge tragicità alla sua figura, ma nulla toglie alla lucidità del suo tentativo e all’attualità delle questioni che egli pone: una religione altro non è che un complesso sistema di significazione, e dunque un sistema semiotico. In questo senso non c’è una reale differenza tra una religione e un paradigma scientifico: entrambi mettono in gioco dei saperi e delle regole sostenute da una fede e attraversati da strategie e forze passionali che la scienza intende costantemente denegare. È per questo che le traduzioni tra le fedi come quelle tra i sistemi scientifici sono destinati al fallimento e alla tragedia.

Mi sembra che l’episodio riveli alcuni tratti importanti della figura intellettuale di Paolo Fabbri, che proverò a elencare. Anzitutto il tono colloquiale, il legame che resta comunque vivo tra il testo scritto che oggi leggiamo e l’aspetto drammaturgico e performativo originario. Come è noto Paolo era un pensatore orale, che ha dispiegato la sua attività di riflessione quasi esclusivamente attraverso la conversazione, l’intervento al Convegno, la discussione, l’intervista. A parte l’ironia di Eco (che in Il nome della rosa lo traveste da Paolo da Rimini, coltissimo bibliotecario affetto da agrafia, o incapacità di scrittura), la dimensione interpersonale era vitale per Paolo, perché il suo pensiero era un flusso costante, che sollecitava incessantemente l’interlocutore e ne veniva a sua volta sollecitato, alla ricerca di una qualche grande o piccola improvvisa illuminazione. Da questo punto di vista, Paolo era un maieuta formidabile e instancabile, attivatore di energie intellettuali (moltissimi gli intellettuali e gli artisti che dichiarano il loro debito nel volume per i suoi sessant’anni Eloquio de senso, del 1999), maestro e scopritore di talenti (pur senza mai radunare una vera e propria scuola, per ragioni che dirò tra poco, Paolo ha allevato studiosi di grande spessore intellettuale), instancabile animatore culturale.

Il secondo aspetto che emerge chiaramente dal piccolo episodio veneziano è l’idea che per svolgere il suo lavoro la semiotica ha bisogno di oggetti empirici: di racconti, discorsi e studi di caso situati e specifici. L’atteggiamento di Paolo sotto questo aspetto è quello del flâneur: il mondo della cultura è un campo di ricerca in cui aggirarsi con la massima attenzione, per cogliere in tempo quei dettagli capaci di rivelare i sistemi di significazione soggiacenti e le loro dinamiche. Gli agenti doppi, i traditori come Zevì, le tecniche di camuffamento, il pettegolezzo, le produzioni di alcuni artisti sono alcuni dei tantissimi sintomi da lui analizzati negli anni. D’altra parte, la vocazione nomade di Paolo affiora anche dalla sua attività, che lo ha visto trasferirsi tra Francia e Italia, e qui passare da una sede universitaria all’altra (da cui appunto la impossibilità di costruire “una” scuola vera e propria come quella di Eco nella roccaforte bolognese).

C’è infine un terzo aspetto. Nell’intervento di Venezia, Paolo mette in atto una sua tipica tattica di pensiero: spostare il luogo del discorso altrove. Ma un altrove non isolato dal qui e ora: anzi, un luogo altro da cui guardare al qui e all’ora con la possibilità di vedere meglio; in questo caso, vedere meglio tanto i problemi teorici della traduzione quanto quelli della commensurabilità tra i differenti paradigmi semiotici (e i giochi di passioni che questi implicano e accendono).

L’altrove fondamentale nell’avventura intellettuale di Paolo è stata la semiotica generativa di Greimas e della Scuola di Parigi: un approccio teorico che analizza in che modo i sistemi e i processi di significazione interagiscono all’interno dei discorsi e delle reti discorsive dando vita alla produzione del senso. Ci si riconnette qui al punto precedente: isolare un certo oggetto di studio, per quanto specifico, non deve portare a esaurire in esso la riflessione, ma deve saper innescare un movimento verso i sistemi e i processi di significazione soggiacenti.

I due movimenti sono inscindibili nella pratica semiotica: di qui tre conseguenze. Per un verso una concezione libera e “souple” della teoria generativa, che Eliseo Veron ha definito addirittura “strumentale”. Per altro verso una “disciplina” nel senso di una etica del pensiero, che deve essere tanto più fedele al singolo oggetto “sintomatico” di analisi quanto più capace di riferirlo a uno sfondo teorico e alle questioni che reciprocamente oggetto e sfondo si rimandano e fanno emergere. Per un altro verso ancora, una “intraducibilità” del sistema di pensiero della semiotica generativa con quello della semiotica interpretativa (e il permanente dissidio tra il metodo Fabbri e il metodo Eco).

Dal momento che proprio su una semiotica interpretativa baso il mio dialogo con le scienze neurocognitive, il rapporto intellettuale tra noi non poteva essere che impacciato (per quanto cordiale). L’ultima occasione di dibattito pubblico con Paolo l’ho avuta a Siena, al Convegno dell’Associazione di Semiotica dello scorso ottobre. Avevo parlato di enunciazione filmica sullo sfondo della mia proposta “neurofilmologica”. Dibattito animato. A un certo punto Paolo si illumina, punta verso di me il dito e esplode: “Ho capito cosa non va nel tuo discorso: perché non parli mai di significazione?”. E in quel momento confesso, mi sono sentito come Shabbetai Zevì davanti al sultano Mehmed IV.

Riferimenti bibliografici
P. Basso, L. Corrain, a cura di, Eloquio del senso. Dialoghi semiotici per Paolo Fabbri, Costa & Nolan, Genova 1999.
P. Fabbri, L’intraducibilità tra una fede e l’altra, in Id., Elogio di babele, Meltemi, Milano 2003.

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