New Dada? Certo, così l’aveva storicizzato già Renato Barilli nel volume L’arte contemporanea (1984), dove il lavoro di Christo viene visto come estensione quantitativa di un gioco – la stimolazione sensoriale che consiste nel coprire, fasciare, cancellare un oggetto introducendo un’ambigua oscillazione tra riconoscibilità e irriconoscibilità – che risale a Man Ray e in particolare all’opera L’enigma di Isidore Ducasse (1920, ma ci siamo scordati di festeggiare il centenario) il cui titolo omaggia il Lautréamont che aveva concepito la bellezza come “l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e un ombrello” (diventato un titolo di Agnès Varda e anche di Battiato/Sgalambro). Si tenga conto che Man Ray è anche autore di una Venere restaturata (1936) che è una copia della Venere di Milo tenuta stretta da una serie di corde che trasformano quella statua greca in un corpo femminile votato al bondage: si vede allora che le opere di Christo, in cui l’uso delle corde è esibito tanto quanto i materiali di copertura, tende a trasformare oggetti, monumenti ed elementi paesaggistici naturali in forme erotiche sadomaso stranamente imparentate con le donne di Araki.

Nouveau réalisme? Perché no, visto che il movimento creato da Pierre Restany nel 1960 – aldilà della poetica generale votata a lavorare (su) materiali desunti dalla realtà (si pensi ai manifesti strappati di Rotella) – ribadisce la centralità di Parigi proprio nell’epoca in cui vi arriva (all’età di 23 anni) il bulgaro apolide Christo Javacheff, che nell’arco di pochi mesi decide la sua vita creando i primi objets emballés (piccole bottiglie, scatole avvolte da tessuto cerato e spago), entrando nella cerchia Restany e mettendosi con Jeanne-Claude Denat de Guillebon, in quel momento sposata Planchon ma sensibile a un preciso segno del destino: lei e Christo sono nati lo stesso identico giorno, il 13 giugno 1935. E così nel 1960 nasce il Nouveau réalisme ma nasce anche Cyril Javacheff, che poi da grande diventerà Cyril Christo, autore di molti libri di fotografie naturalistiche e del documentario Walking Thunder: Ode to the African Elephant (2019). È il primo frutto di una collaborazione che subito diventa simbiosi artistica: nel 1962 i neogenitori firmano assieme la loro prima opera monumentale: Cortina di ferro, un muro di barili di petrolio che blocca la parigina rue Visconti, come se una barricata comunarda (ma bella come un’installazione site-specific) protestasse contro il muro di  Berlino. Il Nouveau réalisme è già Environmental Art, l’ostruzionismo letterale è già una figura della cancellazione; e solo la mano che cancella può scrivere il vero.

Arte concettuale? Probabilmente, visto che Peter Osborne apre la sua galleria di “critica istituzionale” – riflessione sulla dimensione istituzionale dell’opera d’arte (posizione dominante dei musei e delle gallerie rispetto a quella degli artisti e del pubblico) e la conseguente realizzazione di opere a funzione metalinguistica, cioè atte a mettere in discussione proprio l’autorità delle istituzioni di sancire cosa è arte e cosa non lo è – non a caso con due opere sessantottine firmate dai coniugi ormai trasferitisi a New York: l’impacchettamento della Kunsthalle di Berna (per festeggiare il cinquantenario, prima della storica mostra di Harald Szeeman Live in your head: when attitudes became form) e l’impacchettamento del Museum of contemporary art di Chicago inaugurato da poco (un filmato dell’epoca ci mostra Christo che esegue personalmente, con l’aiuto di pochi operai, la copertura con la tela cerata e il preciso reticolo di corda di canapa). Ovviamente il carattere concettuale del progetto è segnalato dalla bellezza autonoma dei vari schizzi preparatori, che varranno come equivalente funzionale (sul mercato dell’arte) quando le mostre avranno termine e l’installazione provvisoria tornerà nel limbo ontologico che caratterizza tutte le arti performative.

Land art? Ovviamente, si dirà, visto che gl’impacchettamenti più spettacolari sono quelli che si spostano verso le dimensioni macroscopiche di interi ambienti naturali, la cui modifica richiede uno sguardo “geografico”, dall’alto verso il basso (visione aerea) più che dall’esterno ad altezza uomo: Surrounded Islands (1983, centenario del trasferimento di Claude Monet a Giverny) tratta la baia di Biscayne (Florida) come fosse una tela azzurra piena di grandi tondi scuri  che vengono evidenziati da anelli di propilene fucsia (fucsia non è un tipico colore da evidenziatore?) che finiscono col metamorfizzare le isolette in ninfee di Monet. Ma un’arte ambientale non per questo è ambientalista, sicché i progetti di Christo e Jeanne-Claude si ritrovano spesso al centro di contestazioni da parte delle comunità locali (se esistono i No Tav, perché non dovrebbero esistere i No Pack?): il progetto Over The River, che dovrebbe coprire con un drappeggio di stoffa argentata cento chilometri del fiume Arkansas, dopo vent’anni di polemiche con gli ecologisti del Colorado ( e un investimento personale valutato in quindici milioni di dollari) viene abbandonato; anche se Christo adduce come motivazione politica l’aver scoperto che il terreno prescelto è stato acquistato dall’ immobiliarista Donald Trump.

Turismo esperienziale? Ma sì, perché no, in fondo i numeri parlano chiaro a tutti gli assessorati:  The Floating Piers – una rete di pontili (larghi 16 metri per una lunghezza complessiva di tre chilometri) realizzata con circa 220.000 cubi di polietilene ad alta densità, ricoperta da 100.000 mq di nylon poliammidico color giallo dalia, concepita per unire con un percorso pedonale tre punti del lago d’Iseo (Lombardia) – aperta al pubblico il 18 giugno 2016, nei primi due giorni è stata calpestata da oltre centomila visitatori, ha avuto un’affluenza continua con code chilometriche e alla fine (chiusura il 3 luglio, con inizio della rimozione di tutte le strutture già il giorno seguente) il totale dei visitatori è stato calcolato in circa un milione e mezzo di persone. Che esperienza cercavano questi turisti? Un artista di nome Christo, dopo aver passato una vita a creare sudari in cui seppellire monumenti per poi farli risorgere, adesso compiva il miracolo di far camminare le masse sulle acque: finalmente, fruire un’opera d’arte combacia col farne parte integrante; una semplice passeggiata all’aperto è un evento destinato alla memoria collettiva (e alla storia del luogo).

Il paradosso dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è che, da quando esiste la fotografia e ogni altra possibilità di trasformare in multiplo ciò che sarebbe un supporto unico (disegni preparatori, modellini ecc.) o un evento effimero (un elemento installato e poi smantellato), l’arte continua a circolare nel mercato anche dopo la scomparsa della cosiddetta opera. Grazie alle immagini tecniche, acquistabili sotto forma di libri ma anche di pezzi (firmati) esponibili, Christo risorge. L’effimero rimane.

Filmografia di Albert e David Maysles

Store Front (1965)
Christo’s Valley Curtain (1973)
Running Fence (1978)
Islands (1986)
Christo in Paris (1990)
Umbrellas (1995)
The Gates (2007)

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